• Il cielo in un armadio. A Prato, Fratellina di Scimone e Sframeli

    Lo si è detto altre volte. Il teatro scritto da Spiro Scimone e realizzato sulla scena insieme a Francesco Sframeli fin dagli esordi parla di un oltre, di una realtà che è posta al di là dei confini visibili della scena. Separata da questa da una vera e propria barriera fisica e tuttavia percepibile ai suoi abitanti, nella sua ambiguità che si allarga a sfiorare il mistero. Il mondo fuori dalle pareti domestiche di Nunzio, da cui arrivano allarmanti messaggi lasciati sotto la porta. Il Bar invisibile oltre il muro che separa i due protagonisti dai suoi frequentatori. Il misterioso spazio del Cortile abitato da personaggi rampanti, nascosto dietro una barricata di cose buttate vie, forse lo stesso spazio che si renderà visibile in Pali. Come se la quarta parete, si ragionava, ormai sparita dal proscenio di un teatro che non ha più separazione fra scena e platea, si fosse spostata sul fondo, a delimitare lo spazio del teatro da ciò che sta fuori.

    Ma ecco che quell’oltre sempre di più finisce per richiamare a sé quelli che stanno “di qua”. Non più ultimo rifugio, la scena si rivela lo specchio di una realtà in cui è diventato difficile vivere. C’è chi dice no, come i personaggi di Giù che il loro oltre vanno a cercarlo al fondo di un impianto sanitario, tirando lo scarico del cesso. Personaggi in cerca non di un autore ma di un luogo sono anche i protagonisti di Fratellina, la nuova creazione dei due artisti messinesi che ha debuttato al Fabbricone di Prato, spazio denso di care memorie teatrali, la produzione è del Teatro Metastasio. Come sempre essenziale, simbolica e allo stesso tempo concretamente quotidiana, la scena di Lino Fiorito li ha collocati su due letti a castello che si guardano un po’ di sbieco, chiusi allo sguardo da tapparelle che fungono da minimali sipari. Che si sollevano quando il ticchettio e poi il suono imperioso della sveglia segnala l’inizio della giornata.

    Foto di Gianni Fiorito

    Da un lato stanno adagiati Nic e Nac, Spiro e Francesco. E bisogna naturalmente guardarsi dal cadere nella trappola dei due nomi di stampo beckettiano, non è l’unica trappola del resto – Sorellina ha qualcosa della Winnie di Giorni felici mentre armeggia con lo specchietto e il rossetto tirati fuori dalla borsetta dei trucchi per darsi una sistemata, ma di lei parliamo più avanti. Il fatto è che la lingua teatrale di Scimone, così sincopata nel ritmo, dove la ripetizione che scandisce i dialoghi è anche lo specchio di una meraviglia davanti al mondo, non è riconducibile che a sé stessa. E i suoi personaggi, con quel che di buffoneria, anche questo lo si notava già, sono figure di uno stralunato vaudeville che dialogano sempre sul filo del nonsense. Ma per capovolgere la buffoneria in interrogazione.

    Dall’altro lato stanno Fratellino e Sorellina (Gianluca Cesale e Giulia Weber) che la crasi del titolo tende a mescolare in un unico sentimento agrodolce. È il bisogno di avvicinarsi a qualcuno, di essere accarezzati da qualcuno. E non hanno nemmeno bisogno di un nome, tanto questo sentimento è universale. Perché di amore parlano sottovoce tutti i lavori di Spiro Scimone, amore coniugato in tutte le possibili varianti, ma sempre tradotto in assenza, in impossibilità, se non in vero e proprio dis-amore. Come se quel sentimento impossibile fosse anche la spia di una marginalità, umana prima che sociale, nel senso di stare ai margini della vita.

    Fratellino chiede come sembra a prima vista, perché ha la sensazione di non fare una buona impressione a prima vista. Mostrarsi significa sentirsi visti dall’altro, e lo smascheramento equivale alla perdita dell’innocenza. Sorellina soffre per le sofferenze degli altri. C’è pudore a pronunciare la parola solidarietà. E allora si evoca il cognato, inteso come marito della Sorellina, che tiene sempre aperto l’armadio e dà tutti i suoi vestiti alle persone che non ne hanno, come nella parabola evangelica. In questo mondo a rovescio che è la realtà, è stato accusato di aiutare gli altri. Strani individui hanno sequestrato tutti i vestiti e l’hanno chiuso nell’armadio e si sono portati via l’armadio. Dunque Fratellino dovrà recarsi a cercarlo al mercato dell’usato.

    Il doppio misto che si innesca fra le due coppie assomiglia alla partita giocata senza palle né racchette in Blow-Up, il film di Antonioni. I primi parlano di ricominciare da capo. Ritrovare tutti i colori naturali che hanno dimenticato. Ritrovare i colori perché sono diventati un po’ pallidi. Uno sogna di diventare un poveraccio, un vero poveraccio, l’altro non vorrebbe essere da meno. Lamentano di essere invasi dal rumore. Evocano il suono del silenzio. Come nella canzone: persone che parlano senza dire niente, persone che sentono senza ascoltare. Dobbiamo davvero capire quello che si dice. Ma cosa succede se quel che si dice perde il suo valore metaforico? Risale il disco giallo del sole, scende uno spicchio di luna che sembra una grossa banana. Non cominciare con la luna storta, e vuol dire che bisogna raddrizzarla. Così drizzare le orecchie significa per Nac ricordare che quando era piccolo il padre lo portava a passeggio tenendolo per le orecchie. Da un po’ di tempo siamo completamente fuori da tutte le grazie, dicono. Cioè non riusciamo più ad avere la grazia di qualcuno, un semplice tocco, una carezza.

    Alla fine l’armadio avanza magicamente al centro della scena. E allora bisogna allontanarsi da questa realtà, per avere carezze dagli altri bisogna proprio stare lontani da questa realtà. Come? Entrando tutti dentro l’armadio. Senza portarsi dietro niente, di là non ce n’è più bisogno. Il portafoglio è vuoto ma questo vuoto non vogliono più riempirlo con i soldi. Bisogna chiudersi la porta alle spalle.

     

    © Gianni Manzella

     

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