Che grande artista della scena è Carlo Cecchi. Attore e capocomico nel senso più autentico di una tradizione che qui rivela tutta la sua necessaria attualità, a dispetto delle miserie anche “politiche” di tanto teatro istituzionale. E dunque che piacere è tornare a vederlo ogni volta che se ne presenti l’occasione, come ora a Roma, al teatro Argentina, in questo divertentissimo, tragicamente comico dittico eduardiano che da qualche anno va ripresentando sui nostri palcoscenici. Distanti nel tempo della creazione, i due atti unici, Dolore sotto chiave e Sik-Sik l’artefice magico, erano stati anche una delle ultime occasioni per vedere sulla scena Eduardo, per chi allora era ragazzo, all’inizio degli anni ottanta del secolo scorso. Il giovanile Sik-Sik è un piccolo capolavoro che rivela il teatro del grande attore e autore napoletano allo stato nascente, per così dire; mentre l’altro, successivo di una trentina d’anni, ci mette a confronto con la piega amara maturata nel dopoguerra.
Tolto di mezzo il pirandellismo della situazione, che ormai poco interessa, e scomparse le istanze sociali di un altro momento storico (gli accenni a un possibile adulterio subito cancellati dall’intervento censorio), ciò che ora risalta in Dolore sotto chiave, anche da un punto di vista drammaturgico, è soprattutto l’innesto eversivo della farsa all’interno del dramma borghese. Nel soggiorno apparecchiato che la scena di Sergio Tramonti isola su una pedana al centro del palcoscenico, quasi a sottolinearne la convenzionalità, va in scena il conflitto che oppone fratello e sorella. L’uomo è stato assente da casa per molti mesi, durante i quali lei lo ha tenuto al corrente delle condizioni della moglie immobilizzata su un letto, ormai condannata a una vita vegetativa, per scoprire ora con fracasso di urla e piatti rotti che la donna era morta da tempo e lei glielo aveva nascosto per timore di chissà quale gesto disperato da parte di lui. Ma ecco irrompere lì nel mezzo i vicini compassionevoli e interessati, chi a vendergli le fotografie del funerale o il progetto di un monumento funebre, chi a inseguirlo con una tazza di cioccolata calda (sono Dario Iubatti, Remo Stella e Marco Trotta intorno a Vincenzo Ferrera e Angelica Ippolito).
Fra loro Carlo Cecchi è il vicino invadente, il professor Ricciuti, sempre pronto a far valere la sua esperienza di vedovo, non a caso una parte minore che anche Eduardo aveva tenuto per sé. Ed è un momento di teatro davvero straordinario quello in cui si ostina a dettare per telefono alla serva la ricetta della coratella con i carciofi, fra tentennamenti e silenzi e continue ripetizioni che dilatano il tempo dell’attesa – una improvvisazione che non compare nel testo pubblicato, inventata da Eduardo sul palcoscenico. Si ride irresistibilmente ma con un groppo in gola perché è straziante l’impazienza dell’altro che aspetta un’altra telefonata, vorrebbe rivelare che adesso è libero alla donna di cui intanto si è innamorato ma sta per andarsene con chi può prometterle di sposarla. Ed è come precipitare in un borgesiano labirinto di tempi. La possibilità di un’altra vita che scivola via un granello alla volta come in una implacabile clessidra, chi non ha provato una volta questo sentimento. Quando alla fine tutti se ne sono andati, restano loro due, fratello e sorella, a contemplare immobili la solitudine della futura vita in comune cui si sono condannati.
In maniera quasi speculare, Sik-Sik l’artefice magico muove dalla farsa napoletana per mettere in luce la malinconia del mondo dell’arte che il giovane Eduardo coglie al suo livello più basso. Un illusionista da quattro soldi che finge un’eleganza che non ha. Il suo compare è in ritardo per lo spettacolo e lui ne assolda un altro abbastanza tonto da provocare ogni possibile equivoco. Il colombo che doveva spuntare fuori dal cappello diventa un pollastro e la sua partner resta chiusa nella cascia inchiavardata col chiavistello sbagliato. Il teatro borghese è scomparso dalla scena voluta da Titina Maselli, una tela a disegni astratti che si solleva per mostrare al di là lo spazio in cui Sik-Sik mette in opera i suoi numeri, inevitabilmente destinati a un derisorio fallimento, sotto lo sguardo impassibile della stupenda Angelica Ippolito, già icona del teatro di Eduardo, nella fissità davvero da teatro orientale con cui ripete la mossa di scostare un lembo del kimono azzurro per mostrare la gambetta. Non è solo il fatto che dietro la commedia si nasconda la tragedia, è che quel povero mondo di finzione ci commuove. Altro che la mano di dio.
© Gianni Manzella