Non può non piacere Akram Khan. Il coreografo e danzatore anglo-bengalese si è imposto fra i nomi di maggior successo dell’attuale scena inglese con una danza di suadente piacevolezza che con una voluta confusione di stili miscela modernità e tradizione, oriente e occidente, movenze khatak e musica pop, tecniche del corpo e contributi multimediali, e non a caso l’ha portato anche a firmare uno dei tratti della cerimonia di apertura dei giochi olimpici di Londra. Desh, l’assolo assai applaudito al teatro Argentina per Romaeuropa, è un perfetto paradigma di un lavoro per il quale parole come magia e emozione si sprecano.
C’è intanto un tema attrattivo qual è la ricerca di identità di chi appare diviso fra due culture. Nato (nel 1974) e cresciuto a Londra da una famiglia originaria del Bangladesh, Akram Khan mette in scena questa esperienza multiculturale e i conflitti generazionali che ne derivano, sull’onda dell’accattivante colonna musicale di Jocelyn Pook che crea un tappeto sonoro su cui le immagini sembrano srotolarsi per forza d’inerzia. Si percepisce il fragore urbano delle grandi metropoli dell’Asia nella musica che accompagna i grandi colpi sferrati a terra dal danzatore con una mazza, nell’iniziale oscurità della scena, mentre progressivamente il movimento diventa danza – ed è il momento migliore dello spettacolo. Ma poi l’odore dell’oriente reale torna solo nel momento in cui il danzatore dialoga con un call center in Bangladesh per risolvere un problema di tecnologia informatica.
Desh significa patria, paese, nella lingua bengali che la madre l’obbligava a parlare a casa, da bambino. E a quel paese lontano guarda con letterale nostalgia il padre, cuoco di professione, in cui il danzatore si sdoppia, piegando il busto in avanti in un gioco mimico che trasforma in un volto attonito e rotondo il capo rasato su cui sono disegnati occhi e bocca. E questa gag un po’ piaciona, anche per l’insistenza con cui è proposta, è la sintesi più efficace dello spettacolo.
In realtà è così rassicurante il mondo inscenato da Akram Khan, così privo di zone d’attrito, così attento a corrispondere i buoni sentimenti dello spettatore, forse sta anche in questo la chiave del suo successo. Non c’è niente da capire, niente di cui dubitare, niente che possa turbare la felice serata, c’è solo da abbandonarsi alla sua raffinatezza visiva con l’illusione di esser parte di un’esperienza artistica. Nel suo eclettismo globalizzante anche la guerra per l’indipendenza dal Pakistan scivola nelle pieghe di una fiaba nera. Il meraviglioso, il favolistico anzi, prende campo sequenza dopo sequenza. Si moltiplica nelle immagini animate proiettate sul velo trasparente calato a mo’ di sipario sulla scena, dove un bambino corre in una una foresta di alberi con le radici all’aria, fra elefanti barche uccelli. E al mondo infantile rimanda ovviamente anche il dialogo immaginario con la nipotina che giustamente preferisce Lady Gaga alle saghe di famiglia, mentre una sedia di abnormi dimensioni convoca chi guarda agli oggetti con gli occhi dell’infanzia.
Sicché, quando il danzatore appare appeso a testa in giù in una selva bianchissima di nastri di stoffa, che altro può dire lo spettatore ormai assuefatto se non: ci piacciono le fiabe, raccontane un’altra.