Racconta una tradizione che il vecchio Eschilo fu portato a processo per aver profanato nel suo teatro i misteri di Eleusi. E forse per questo sarebbe stato condannato all’esilio a Gela. Tornava in mente assistendo sere fa all’Auditorium del Parco della musica, a Roma, allo spettacolo incandescente e misterioso di Lia Rodrigues intitolato Fúria, evento inaugurale del festival autunnale di Romaeuropa. Titolo da non fraintendere, quello dell’ultima creazione della coreografa brasiliana. Potrebbe portare fuori strada, giacché vuol dire piuttosto un sovrappiù di energia che sta dietro alla mania, la follia sacra che nell’antichità greca presiedeva alla conoscenza.
Lia Rodrigues si è formata in anni lontani accanto a Maguy Marin, era fra gli interpreti dell’indimenticabile May B. Da quindici anni lavora con la sua compagnia nella favela di Maré, una delle più grandi di Rio de Janeiro, oggi forse più di 140mila abitanti (ma è un calcolo difficile da tenere). Vi ha aperto una scuola di danza e porta avanti un lavoro che è politico nel senso più pieno, non confinabile cioè ai cartelli di protesta sollevati dai suoi danzatori al momento degli applausi, che dicono dell’Amazonia in fiamme e di Marielle Franco, l’attivista assassinata proprio a Maré la primavera dell’anno scorso.
All’inizio c’è solo un mucchio di stracci colorati, da un lato sul fondo. Questo almeno sembra di percepire, nell’oscurità che ancora avvolge la scena. Poi qualcosa comincia muoversi, un corpo si solleva lentamente, tende verso l’alto qualcosa che assomiglia a una bandiera o uno stendardo. Prende ad avanzare strisciando per terra in una sorta di movimento sussultorio. Altri lo seguono in quel faticoso movimento. Strisciando, trascinandosi a turno l’un l’altro. E intanto, dapprima lontanissimo, appena al di sopra della soglia della percezione, ha cominciato a sentirsi un ritmare costante di colpi, su cui si innesta a tratti un fischio o un urlo strozzato. Che cresce, cresce di intensità. È una musica tradizionale dei Kanak della Nuova Caledonia che detterà il ritmo di tutto lo spettacolo
È come il risveglio di una comunità, accompagnato dal crescere della luminosità. Lentamente percorrono il perimetro del palco. Quando sono in vista del proscenio, le luci sono già abbastanza alte per cominciare a tentar di decifrare le presenze che compongono quel gruppo magmatico. Si dice non per caso decifrare, perché lì per lì anche le differenze di genere non sono sempre nitide. I corpi dei nove interpreti sono avvolti in panni molto colorati che coprono anche i visi e si disfano e si ricompongono diversamente e in quel gioco appaiono nudità vestite solo da uno strato sottile di vernice blu. Corpi che percorrono tutte le tonalità del bianco e del nero, come a dimostrare l’impossibilità di fissare un confine etnico. Saltano l’uno sull’altro, si scontrano, si sostengono, si avviluppano, si strappano gli abiti di dosso. Due uomini afferrano una donna e la trascinano sul fondo, la spogliano, si intuisce una violenza ritualizzata.
Furia è un vero e proprio rito orgiastico, al di là dell’evidente l’allusione sessuale di molti gesti. Non ci sono pause. Il ritmo ininterrotto delle percussioni non lo consente. Lo spettatore è trascinato a forza dentro il flusso delle immagini che si creano e disfano senza soluzione di continuità, dove possono sovrapporsi una trascinante danza tribale e una chorus line da musical. Piuttosto è ben chiara la dominante femminile del rito. Simile a quello delle Baccanti ispirate da Dioniso, non è forse un caso che a un certo punto per assistervi i maschi debbano celarsi in leggere vesti femminili, come Penteo nel mito inscenato da Euripide. Una delle immagini ricorrenti è il comporsi dei corpi in una sorta di carro trionfale su cui si issa un corpo femminile. Di fronte a cui i maschi non possono che sfoggiare un vano esibizionismo.
Torna così la suggestione dei misteri sacri dell’antichità. Anche perché realmente questo bellissimo spettacolo sembra ricondurci verso qualcosa di molto antico, fin dentro le origini semitiche e africane della civiltà occidentale. Come se ciò che il mondo greco era stato poi capace di colonizzare nella forma tragica e nella filosofia riemergesse qui, nel Brasile della favela un po’ nera anch’essa, allo stato sorgivo.
(Quando la scena è tornata nel silenzio da cui tutto era cominciato, e l’emozione comincia a sedimentarsi, uno degli interpreti si solleva e inizia un lungo sovreccitato discorso in un incomprensibile gramelot francolusitano. Un nastro rosso, chissà perché, gli copre il viso e si tende fino al fondo della scena. Noi facciamo conto che non ci sia stato).
© Gianni Manzella