Nel 1965, di maggio, la rivista «Sipario» pubblicò una inchiesta in cui si domandavano agli scrittori le ragioni della frattura esistente in Italia fra gli intellettuali e la scena. Natalia Ginzburg rispose che le sarebbe piaciuto molto scrivere una commedia, ma non ci pensava nemmeno. «Ogni volta che ho provato a scrivere in cima a una pagina: Piero: «dov’è il mio cappello?» mi sono vergognata a morte e ho dovuto smettere, in preda ad un acuto ribrezzo. Perché in quel Piero, in quei due punti, in quel «dov’è il mio cappello», si proiettavano tutte le brutte commedie italiane che ho letto e che ho sentito in vita mia». Detto fatto. Di lì a poco Ginzburg avrebbe scritto la sua prima commedia, che cominciava proprio con quella fatidica battuta, con un pizzico di civetteria variata appena in «il mio cappello dov’è?» (e Piero diventato Pietro). Scritta «in fretta e per noia», Ti ho sposato per allegria sarebbe poi stato un successo, consacrato anche sullo schermo col volto di Monica Vitti.
L’episodio è notissimo, lo ricorda la scrittrice stessa nella «nota» premessa al volume Einaudi che raccoglie le sei commedie scritte con ritmo irregolare negli ultimi venti anni. «Quella domanda di quella rivista ha generato numerose commedie», scrive. Vien da pensare infatti a Pasolini, che poco dopo avrebbe pure dedicato al teatro una parte notevole delle sue energie creative, complice una malattia che lo aveva bloccato a letto per un lungo periodo. Lei invece dice di aver cominciato a scrivere teatro perché si annoiava, in una vacanza in campagna, e su sollecitazione di Adriana Asti che ne sarebbe diventata la prima e privilegiata interprete: oggi l’attrice torna sulle scene con un’altra vecchia commedia della Ginzburg, L’inserzione, che aveva già interpretato per la regia di Visconti molti anni fa. Di un colore più cupo questa, quanto l’altra era allegra fin dal titolo.
È del tutto sincera, Natalia Ginzburg? È sempre difficile e un po’ futile cercare di sciogliere le ambiguità che stanno dietro ai percorsi creativi. Vale piuttosto la pena di tornare, al di là dell’aneddoto, alle risposte che la scrittrice dava alla rivista, in quel 1965, perché toccano i canonici nodi di fondo della scrittura teatrale. Non a caso il suo punto di partenza coincideva esattamente con quello di Pasolini nell’individuare le difficoltà della crescita di una moderna drammaturgia, nel nostro paese, in una questione di linguaggio, nella mancanza di quello che lo scrittore chiamava un «italiano parlato medio». E Ginzburg di rincalzo, confessando di non amare Pirandello e di amare invece il teatro (in dialetto) di Eduardo: «Come far parlare i personaggi?» E non importa se la risposta da lei data sarà, all’apparenza, del tutto differente da quella offerta dal teatro di Pasolini.
Il teatro di Natalia Ginzburg si può leggere (direi meglio, si può ascoltare) in tanti modi. È un teatro di conversazione, per quanto la definizione suoni inadeguata. Il «parlato» che la scrittrice riproduce è un dialogare quotidiano, per niente brillante. Frasi brevissime, molto spezzettate. Frequenti ripetizioni. Un vocabolario limitato alle parole d’uso comune (quelle con cui la scrittrice ha un rapporto personale, ha affermato in un’altra occasione). A suo modo un «lessico famigliare», con una connotazione sociale individuabile con molta precisione. Come il cinema del primo Nanni Moretti, la scrittrice pesca in un ambiente riconoscibilissimo, quello di una classe intellettuale «diffusa» che appartiene molto (almeno nelle sue origini) agli anni Settanta. Una classe intellettuale senza «aura», oltre che senza potere.
Giornalisti «culturali» che passano annoiati per convegni e tavole rotonde o si inventano riviste destinate a morire al secondo numero. Scrittori mancati o ancora illusi sul romanzo che non finiscono di scrivere. L’immagine che danno di sé è quella di una protratta precarietà, nell’inconscio bisogno di rifiutare l’impegno in un mondo che sentono estraneo. Disoccupati per vocazione, incapaci di trovare un lavoro che «gli si adatti» mentre fantasticano di impieghi di relazioni pubbliche. Incerti anche nell’arrangiarsi senz’arte con qualche sceneggiatura, con qualche articolo, con una inchiesta alla televisione. Sempre con problemi di soldi che non ci sono. Sempre «in crisi».
Il loro minimalissimo universo è quello famigliare. Non le famiglione patriarcali alla Compton-Burnett, però, capaci di raccogliere quattro generazioni e un adeguato numero di conviventi fra le mura della magione. Famiglia per modo di dire, senza più ruolo sacramentale oltre che gerarchico: frammentata, provvisoria, aperta. Coppie più o meno irregolari. Disordinate come le case che le ospitano, luoghi di casuale intimità.
Cosa vi accade veramente? Molto poco. Anche qui tutto accade altrove, tutto vi arriva molto smorzato. O forse quel che avviene, i «fatti» per Ginzburg sono proprio i rapporti che si creano fra quegli uomini e quelle donne. Quelli che ricostruisce nel suo laboratorio sono i «prototipi sociali di un paese che va a catafascio», osservato nelle crepe che ne rivelano il progressivo degrado umano e politico. Vien da chiedersi se siano questi, dieci anni dopo o venti, i «gruppi culturali avanzati della borghesia» cui si rivolgeva Pasolini. E dove è andata a finire l’anomalia italiana su cui ci si illudeva? Come L’intervista, che è la commedia più recente, questo teatro racconta con agrodolce pessimismo la storia di una sconfitta su cui non si possono facilmente chiudere gli occhi.
© Gianni Manzella
Questo pezzo è stato pubblicato sul quotidiano «il manifesto» il 3 maggio 1991.
Per l’esordio nella regia teatrale, Nanni Moretti ha scelto due atti unici di Natalia Ginzburg, Dialogo e Fragola e panna, riuniti sotto il titolo Diari d’amore. Lo spettacolo, interpretato da Valerio Binasco, Daria Deflorian, Alessia Giuliani, Arianna Pozzoli e Giorgia Senesi, inaugura la stagione del Teatro stabile di Torino, al Teatro Carignano dal 9 ottobre.