È un agghiacciante slapstick la prima folgorante immagine offerta dal ritrovato festival della Biennale teatro. Sul riquadro di terra che occupa per intero la scena, dove è stata già scavata la fossa, poche figure vestite di scuro assistono all’atto finale di un funerale. Cade una pioggia sottile, che obbliga a stringersi sotto gli ombrelli. Ma l’uomo che deve calare la bara si imbroglia con le funi. Gli sfugge di mano. Cade diritta. Un vento di follia sembra investire gli uomini venuti a gettare la propria manciata di terra sul defunto. Sul fondo si apre alla vista la lunga tavola imbandita di un pranzo di nozze…
È un’immagine destinata a restare a lungo nella memoria dello spettatore, quella che apre l’Hamlet di Thomas Ostermeier. Ma capace anche di rivelare un metodo, come cioè per suo tramite passi un’interpretazione registica del capolavoro scespiriano, ciò che appunto distingue la regia da una messinscena. Giacché quella contiguità fra i due luoghi, da cui non ci si sposterà per tutta la durata dello spettacolo, materializza la vicinanza temporale dei due eventi, il funerale del padre e il nuovo matrimonio della madre. Laddove forse è collocato il germe della nevrosi che progressivamente afferra il protagonista. Eccolo infatti che già si astrae dalla festa, non siede con gli altri. E la buffoneria che esplode in gag derisorie (difficilmente si è riso tanto in un Amleto), fra bevute di birra e parodie di un concerto rock, di questa sua nevrosi diventa la manifestazione parossistica.
Ostermeier è tornato a Venezia per ricevere un Leone “alla carriera” fin troppo tempestivo, vista la giovane età del regista tedesco. Lo si era conosciuto proprio qui, nel 1999, quando stava per assumere la direzione della prestigiosissima Schaubühne berlinese, non ancora trentenne. Frequentava allora soprattutto una nuova drammaturgia britannica in odore di scandalo (emblematico il titolo di Mark Ravenhill con cui si era presentato, Shopping & fucking). E aveva idee chiare su cosa gli interessasse nel lavoro teatrale: il testo, l’attore, la narrazione. Oggi Ostermeier mette in scena di preferenza Ibsen e Shakespeare, ma i suoi cardini non sembrano mutati per questo. Non sembra cioè diverso il suo modo di affrontare i testi, anche perché a far da tramite verso la contemporaneità c’è il passaggio dei “classici” per le mani del dramaturg Marius von Mayenburg, collaboratore fisso del regista. Perché la contemporaneità a teatro non sta ovviamente nel fatto che gli attori di Amleto vestono in giacca e cravatta o bevono birra, quanto piuttosto nella capacità di interrogare il presente.
Ostermeier non ama Amleto, lo si capisce. Non ama la sua irresolutezza. Lo dice anche l’immagine fisica che Lars Eidinger offre del protagonista, un giovanotto malamente ingrassato, un bad boy animato da astratti furori che urla e strepita e si rotola nella terra – e si sa quanto sia rivelatore il linguaggio dei corpi. Il suo “essere o non essere” risuona più volte, fin dall’inizio, a misura di una ossessione che non trova sbocchi. Ha preso gusto alla sua esibita follia, e non riesce più a staccarsi da questa maschera. Ma l’irresolutezza di Amleto è forse un tratto di quella generazione giovanile di cui anche Ostermeier sente di far parte. E forse lo è anche la confusione dei ruoli che porta a sovrapporre la figura della madre a quella della ragazza da sedurre, basta che Gertrude si tolga a vista la parrucca di capelli biondi e i grandi occhiali scuri in cui si nasconde e appare la giovane Ofelia.
La difficoltosa sepoltura dell’Amleto di Shakespeare da parte di Ostermeier procede a strappi, per blocchi di testo che si sciolgono nel linguaggio della quotidianità. La lotta per il potere di cui ci parla, la corruzione della politica nel crogiuolo del sesso e dello showbizz ci sono familiari ma non riguardano un solo paese. Il morbo è dilagato, non stupisce se Gertrude canta come Carla Bruni e il detentore del potere usa il microfono come uno showman. Ma guardateli bene quei volti ripresi in primissimo piano con una videocamera e proiettati sul sipario di perline che forma una fragile barriera. Davvero il teatro è una trappola per topi in cui anche i potenti possono cadere.