Quando il teatro è felicità. Perché non sempre il teatro è felicità: può costare allo spettatore più di una serata persa. E invece che piacere lasciarsi guidare in piccoli gruppi nell’ascesa lungo il labirinto dei sogni che Ermanna Montanari e Marco Martinelli hanno disegnato all’interno di Palazzo Malagola, a Ravenna, come uno specchio da attraversare per entrare nel loro Don Chisciotte Ad ardere. Si attraversano stanze che sono campi di grano o un accampamento di soldati feriti ancora con le armi in mano, laboratorio alchimistico o biblioteca abbandonata; dove una famiglia sta seduta a una tavola molto borghese davanti a delle galline in gabbia o due bambine costruiscono un castello di sabbia. Per arrivare in cima alla soffitta dove attendono una immobile sirena e una giovinetta nuda che si taglia i capelli. E nella discesa ci sarà ancora l’incontro con una macellaia armata di mannaia, circondata dai quarti di bue appesi. Ma le surreali immagini oniriche che appaiono per un momento e subito svaniscono non generano angoscia. Tutte le stanze risuonano di rumori, di suoni, di dolci arie che danno gioia e non malinconia (lontana pare di ascoltare anche la voce di Demetrio Stratos). Viene in mente la Tempesta, quella di Shakespeare, anche lì c’è di mezzo un mago, ma forse anche Giorgione da Castelfranco potrebbe essere un buon compagno di viaggio per il senso di sospensione che comunica. Non per nulla il settecentesco palazzo da un po’ di mesi è diventato un Centro di ricerca vocale e sonora di respiro internazionale.
All’uscita si torna a riveder le stelle nel cortile attrezzato con una gradinata e un basso palchettino a forma di croce colorato di rosso, che una ragazza sta pulendo con cura. Locanda, dice la scritta sulla serranda di una finestra. Qui però occorre tornare da capo, all’inizio di questo nuovo “cantiere” dei due artefici che nella fabula hanno assunto i nomi di Hermanita e Marcus, lei ci accoglie dal barocco balcone che dà sulla strada con un “pro logos” che nella contaminazione delle lingue porta un’eco testoriana ma poi vi irrompe quella romagnola, alla Cleopatràs o la Mater strangosciàs si sovrappone la Belda di Lus, strega di paese per destino e non per scelta; lui ci apre il portone. Due poveri maghi sperduti, lei che imbroglia i fili, lui che li insegue, insomma figure complementari nell’imbastire i sogni che vengono cuciti a macchina nell’androne del palazzo, mentre altri ancora li scrivono nei loro quadernetti e la bella voce di Serena Abrami intona un canto sefardita e Stefano Ricci che già aveva lasciato sui muri e soffitti il suo segno disegna su una grande lavagna un proprio sogno.
Sul palchetto della locanda ritroviamo Roberto Magnani, Alessandro Argnani e Laura Redaelli che sono l’ingegnoso hidalgo armato di lancia e bacinella in testa e accanto a lui il buon Sancio Panza e la Dulcinea del Toboso, intenzionati a parlare per primi questa volta. Cioè non sono proprio loro ma attori che interpretano una parte – non vi fidate di quel che ascoltate, ammonisce il mago. Non sono quel che dicono di essere, sono larve notturne. E poi c’è Luca Fagioli detto Fagio che sembra Orson Welles che fuma il sigaro, uguale uguale a come lo ricordiamo in F for fake. Erano i giovanissimi palotini degli indimenticabili Polacchi, quanto tempo è passato. E soprattutto le cittadine e i cittadini che hanno risposto alla “chiamata pubblica” per questa nuova avventura pluriennale, opera in fieri destinata a crescere nelle prossime stagioni, dopo l’immersione degli anni passati nella Commedia dantesca. E ora formano uno sterminato coro da teatro di massa che a ondate dilaga sulla scena ballando e cantando mentre la maga fa da saltellante coreuta in un concertato di baci e misteriose glossolalie. Tutti vestiti di bianco, tutti diversi per età e gender.
Donchisciottesco, si dice. Il romanzo di Cervantes ha dato origine al suo bravo aggettivo, per dire di atteggiamenti generosi quanto inutili e alla fine persino ridicoli nel loro utopistico idealismo. Eccolo infatti, il cavaliere dalla trista figura, che sfida il buon senso dei tanti e finisce per essere buttato nell’immondizia. Oppure cerca di fermare un gruppo incatenato di uomini e donne condotto in galera, ché gli pare un’ingiustizia fare schiavi coloro che dio e la natura hanno creato liberi – e Sancio ogni volta: lasciate perdere, qui va a finir male. Ma è poi davvero così ridicola questa sognante resistenza allo spirito del tempo? Metti il famoso discorso contro la polvere da sparo, mai ce n’è stato così bisogno come oggi, dice Dulcinea. Ed era solo un fucilino. Oggi che là fuori si scannano con i missili e le bombe. E non è mica detto che sia come te la raccontano questa guerra. Allora si capisce che i ragionevoli vogliano dare fuoco ai libri dei cattivi maestri, Calvino che parla di uno svitato che sale su un albero e non vuole più scendere e Dostoevskij perché era russo. Si comincia sempre così, con un fiammiferino, la carta non fa rumore, si finisce con la carne. Autodafé, atti di fede li hanno chiamati. Per questa volta ci si ferma alla carta, ma forse vale l’invito a non restare lì fermi.
© Gianni Manzella