Tenuto a lungo in sospetto, il teatro civile di Pier Paolo Pasolini si sta prendendo alla distanza una silenziosa rivincita, come a dar ragione all’autore che lo dava per quasi postumo. Teatro di parola, per definizione. Prossimo a una forma di poesia orale, da ascoltare più che da vedere, nella voluta mancanza di una reale azione scenica, dove le idee sono i reali personaggi. La stessa poetica teatrale enunciata da Pasolini nel suo Manifesto sembrava allontanarlo di fatto dalle scene. E invece il moltiplicarsi degli allestimenti recenti ce lo restituisce proprio come funzionante macchina teatrale, per quanto poco spettacolare. Funziona benissimo, per esempio, la trilogia allestita nel volgere di poche stagioni da Antonio Latella, grazie anche alla forza espressiva dell’affiatato gruppo di giovani attori che formano la sua compagnia.
Conta la capacità del giovane regista dalle ascendenze napoletane di misurarsi con la lettura drammaturgia di un testo, e non ce ne sono molti ormai sui nostri palcoscenici, passando da uno Shakespeare giovanilistico a un Genet di impianto corale, sperimentando anche l’attualità sopravalutata dei nuovi autori britannici. Ma qui alla sua prova più ardua, di fronte a Pasolini.
All’inizio c’è Pilade. Latella lo affronta per quello che è, senza cercare scorciatoie, cioè come rito civile fondato sulla parola. Un tavolo con quattro panche intorno è tutto ciò che serve alla scena a spazio centrale, ideale prefigurazione di un’agorà che raccoglie anche gli spettatori. I sei interpreti sono già lì, in abiti appena un po’ invecchiati. Fumano, attendono in silenzio. Le note di un canto fanno da preludio, parole e musica che ritornano anch’esse da un altro momento storico. El pueblo unido jamas sera vencido. Il nucleo politico del dramma è subito messo alla prova, nella distanza che separa l’oggi da allora, il conflitto fra riformismo e rivoluzione.
Oreste è tornato nella sua città. Graziato dell’uccisione della madre Clitennestra dall’intervento di Atena che ha istituito il primo tribunale umano. Sotto la sua guida si propone di mutare le istituzioni, lasciare i propri privilegi regali e governare democraticamente, dar vita a un mondo nuovo fondato sulla ragione e non sulle vecchie divinità. Il passato dobbiamo solo sognarlo, dice. Ed è rottura con la sorella Elettra che a quegli dei e a quel passato non vuole sottrarsi. Ma lo scontro più doloroso è con l’amico Pilade, il “timido maestro” in cui certo si riconosce un po’ l’autore. Portatore di una diversità che si è fatta carne e scandalo. Che gli permette di vedere il ritorno delle forze del passato, nel male misterioso che uccide il bestiame. E lo rende nemico dell’ordine che si è costituito. Nel procedere dialettico del dramma, il regista contrappone due lunghi monologhi come punto di volta del testo, il visionario lirismo di Pilade (Marco Foschi) e il profetico sguardo di Oreste (Rosario Tedesco) che parla con le parole della dea, seduto in fronte alla luce abbagliante della divinità, volgendo le spalle al corpo dell’altro. Il mondo si muove, tu sei vecchio, gli dice quando si incontrano di nuovo. La rivoluzione è fallita, o piuttosto è stata un’altra da quella sperata. E la maledizione di Pilade agli dei non risparmia alla fine l’ingannevole ragione.
Diametralmente opposta la strada interpretativa scelta da Latella per Porcile. Accattivante quanto il precedente lavoro era severamente fedele a quell’idea di rito civile cara allo scrittore. Diversa è certo la struttura del testo, più prossimo qui alla tragicommedia quanto invece nell’altro caso l’ispirazione anche tematica riconduceva esplicitamente all’archetipo del mondo tragico greco. Ma la regia lo spinge decisamente in direzione del vaudeville o della farsa. Ecco infatti presentarsi, intorno alla nuda pedana quadrata che costituisce il luogo deputato al rito, una folla di personaggi grotteschi, deformati da grosse pance posticce, vestiti di abiti clowneschi, col volto alterato da maschere gommose. Mentre per evidente contrasto i due più giovani protagonisti sono colti in una nudità, o meglio in un ripetuto ossessivo svestirsi e rivestirsi che, senza moralismo, possono apparire piuttosto gratuiti.
Porcile riprende la seconda parte del film omonimo (che però è del 1969, posteriore alla prima stesura del dramma), l’apologo del giovane Julian figlio ventenne di una ricchissima borghesia tedesca più che compromessa col passato nazista della nazione. Colpito da una grazia che è come una peste, l’amore enigmatico e segreto per i maiali. Figlio né ubbidiente né disubbidiente, come gli rimprovera il padre che per parte sua si riconosce senza incertezze nei ritratti deformati che di quella borghesia davano Grosz e Brecht. Incapace cioè, Julian, di scegliere il potere ma anche di stare dalla parte della rivolta, come ingenuamente vorrebbe che facesse la ragazza che lo ama. Diverso dunque dalla generazione paterna ma anche dai suoi coetanei, e questo tratto fondante un po’ si perde nella brusca contrapposizione, priva di una dialettica anche figurativa, con quel mondo di maschere grottesche. Che diverte ovviamente quando replica il collaudato meccanismo del varietà, il dialogo fra la macchietta e la sua spalla, ma tiene assai meno quando si tratta di dare empito corale all’azione. Si percepisce insomma il rischio di ribaltare il senso di questo teatro, di sottomettere a personaggi fittizi la parola pasoliniana. Che non avrebbe per altro bisogno di richiami alla triste attualità berlusconiana, anche se l’inno del partito-azienda ad accompagnamento del cruento rito finale, celebrato in maniera derisoria intorno al simulacro di un enorme maiale sventrato, strappa il più facile degli applausi.
Si cambia ancora registro per l’ultimo tratto, Bestia da stile. Che volge verso il chiaro rigore di un laico oratorio, laddove tutto è affidato alla nudità della parola esposta. Al concertato delle voci. Gli attori si schierano su una fila di sedie di proscenio, davanti al sipario chiuso che si aprirà solo nel finale. Vestiti tutti di un uguale frac nero che poi si rovescerà nel fuoco del rosso. Le luci in sala restano accese, perché tutti ci si possa vedere, in un incrocio di sguardi, perché cada anche quel diaframma che ancora separava interpreti e spettatori.
Bestia da stile è il più tormentato e complesso dei testi pasoliniani, quello continuamente riscritto fino all’ultimo (sarà pubblicato postumo nel 1977 e messo in scena solo parecchi anni dopo). Reso estremo dalla determinazione con cui lo scrittore vi affronta la propria vicenda personale, mescolando la vocazione a essere poeta del suo sesso e del suo paese e l’interiore dissidio fra cattolicesimo e marxismo, il disagio esistenziale e la sensibilità con cui si fa carico del dolore del mondo, le ragioni del cuore e quelle dell’intelligenza. Dando al protagonista il nome di Jan che deliberatamente richiama quello del giovane Palach che si era dato fuoco sulla piazza di Praga per protestare contro l’invasione dei carri armati sovietici. Come a rivendicare il ruolo sacrificale del poeta.
La regia collettiva curata da Latella spoglia il dramma di qualsiasi tentazione rappresentativa e lo orchestra invece in un tessuto di voci registrate (dalla Callas a Laura Betti, dallo stesso Pasolini al suo assassino), di canzoni che ricreano con immediatezza Jannacci o Gracias a la vida di Violeta Parra, con quel commovente richiamo alla vita che dà il riso e il pianto, di canti popolari. E se inevitabilmente emerge l’intensità dei passaggi in cui si distaccano il protagonista Massimo Foschi o la madre Cinzia Spanò, è però nella coralità delle voci che questo bellissimo spettacolo trova un senso profondo.
© gianni manzella