Ha inevitabilmente il sapore del nostos, del ritorno a casa, questo riaffacciarsi fra le pareti di Lenz teatro dove ritorna Friedrich Hölderlin con le parole dell’Hyperion messo in scena da Maria Federica Maestri al culmine di un percorso in tre tappe intorno al romanzo epistolare del poeta tedesco. Per scoprire intanto che la casa ha mantenuto tutta la sua scabra bellezza. Lo spazio di via Pasubio, a Parma, non è mutato nel tempo e fa piacere venire a sapere che diventerà presto una struttura pubblica della città. E tornano naturalmente alla mente molte immagini di quella bellissima avventura teatrale che fu il lungo periplo delle tre stesure de La morte di Empedocle, a cui un poco si era contribuito con lo sguardo. Tanto più che a dare un senso di continuità con quell’impresa c’è anche la ritrovata presenza di Adriano Engelbrecht sulla scena, un felice ritorno anche il suo. Non sembra vero che sia passato un quarto di secolo.
Emerge lentamente l’attore dal grande disco luminoso che si profila sul fondo dello spazio vuoto. Come un’ombra che si levi in una caverna platonica, anticipando la vista della figura alta avvolta in un mantello. All’inizio anzi è solo la voce del protagonista che si ascolta, mentre si fa insistente la musica elettronica live del compositore polacco Paul Wirkus che accompagnerà tutto lo spettacolo. E quello schermo circolare si andrà poi riempiendo progressivamente delle immagini create da Francesco Pititto, cui si devono anche la traduzione del testo e l’impianto drammaturgico del lavoro. Altre ombre sfuggenti. I piani ravvicinati di una natura che osservata così da presso non procura sollievo ma solo inquietudine. Una pianta slabbrata della città di Atene.
La Grecia fa da sfondo anche a questa giovanile opera di Hölderlin. Ma la Grecia è una metafora per il romantico tedesco. Sulla memoria della classicità, sulla sua nostalgia si potrebbe dire, prevale qui l’esperienza della guerra per la liberazione del paese dalla dominazione turca. Da una coppa si allarga al suolo il sangue versato. Siamo nell’ultimo decennio del Settecento, quando Hölderlin scrive l’Hyperion. Le speranze rivoluzionarie accese in Francia si sono lentamente spente. Anche la fine di un amore diventa politica.
Una figura femminile ha preso infatti posto accanto al protagonista, simulacro della donna amata, l’ha chiamata Diotima (è Valentina Barberini, icona da parecchi anni del teatro di Lenz). Insieme si stendono a terra a discorrere sui loro mantelli. Insieme seguono i sottili tagli di luce che creano percorsi geometrici. Che cosa è l’uomo? Chiede lui a lei che gli ripropone la medesima domanda. Interlocutrice e destinataria delle sue parole, Diotima non è in effetti che lo specchio in cui il poeta riflette il suo insanabile malessere. Il dialogo filosofico è in realtà un incessante interiore. Farsi eremita in Grecia allora, come fuga dal mondo e dalla storia, quando però anche il rifugio nella natura non offre più speranza di salvezza. Difenderci dalle mosche è la nostra prima occupazione, conclude lei con amara ironia. Invecchiare tra i vecchi è la cosa peggiore. Hölderlin si sottrarrà a questo destino, chiuso per quarant’anni in una poetica follia, nella torre affacciata sul fiume Neckar del falegname Zimmer, a Tubingen.