C’era già Caino nel paesaggio con figure dell’ultima creazione del Teatro Valdoca, qualche stagione fa. Se ne stava lì, in attesa che qualcuno lo riconoscesse. Era lui il fratello rotto, il figlio più brutto e malato, vittima e carnefice che uccideva e soccombeva al suo gesto. Adesso lo sappiamo, ci pare di saperlo, cominciamo a sospettare che fosse così, alla fine, quando l’eco emotiva dello spettacolo si va attenuando. All’inizio c’è lo spazio in cui precipitiamo al lento sollevarsi del sipario. Uno spazio preparato, popolato di oggetti che si fatica a decifrare. Dove lo sguardo vaga in cerca di un appiglio. C’è un letto scolpito nel legno, in primo piano, poggiato su una lastra specchiante: un letto africano che dice un tempo arcaico e una cerimonia funebre. C’è un cervo statuario e misterioso. Un revox appeso accanto a un grande sasso che rivelerà lentamente le fattezze di un volto, come una maschera di pietra. Una scala di corda che sale verso il cielo. Molti microfoni. E proiettori luminosi appoggiati a terra che saranno anche manovrati a mano per inquadrare i protagonisti.
C’è una intenzione, certo, in questo paesaggio caotico eppure perfettamente composto che fa attrito con una possibile lettura immediata dell’evento. Laddove una scena priva di qualsiasi volontà descrittiva è il necessario correlativo di una scrittura scenica visionaria, fatta della materia dei sogni, che chiede e impone lentezza. Chi sarà mai per esempio quella figura accovacciata dentro un mantello bianco in una immobilità feroce? Mendicante inginocchiata davanti a una moneta o vecchia venuta a vendere un nonnulla in un mercato africano, se non fosse per quel bianco così assoluto, da pittorica madonna… Solo dopo un po’ ci si accorge che per sua bocca parla la figura alata comparsa fin dal principio a avvisare che di un sogno biblico comunque si tratta.
Nel volgersi al personaggio del Genesi, gli artefici del Teatro Valdoca vi hanno guardato il progenitore dell’umanità piuttosto che l’uccisore del fratello. L’instancabile costruttore di città. L’uomo faber e artifex che percorre il “mondo bello” per cambiarlo. Così ci appare, nell’andare avanti e indietro lungo una linea apparentemente retta con cui si presenta il protagonista, cui Danio Manfredini è capace di donare una sorprendente miscela di forza e di fragilità, di stupore e di dolorosa determinazione. In lotta col suo angelo, che ha le movenze danzanti di Raffaella Giordano, mentre dialoga con l’altra figura che l’accompagna ammantata di una regale ieraticità; la sua metà luciferina contro voglia, corifeo di un coro femminile a cui è riservato l’agire, nel tambureggiante ritmo creato dalle percussioni.
Abele “c’è e non c’è”, è qui evocato dal coro e manca. Il sangue è fuori. Non è un caso forse che Cesare Ronconi abbia cancellato dai corpi degli interpreti quelle tracce dipinte, quelle sbavature di rosso che da lungo tempo ne costituivano l’emblema. Lasciando invece risaltare in quella coralità dalla giovinezza un po’ androgina una nudità innocente, priva di intenti di seduzione. O meglio, è come se quell’uccisione inconsapevole, giacché ancora non era stata pronunciata la parola morte, si rifranga nel destino dell’umanità come il vero peccato originario. Condannandola alla ripetizione. Io volevo solo un po’ d’amore, dice a un certo punto il protagonista con le parole di Mariangela Gualtieri, quel suo lessico familiare. C’è di più e di nuovo in questo caso, nella sua scrittura poetica, una organizzazione della parola funzionale alla struttura dello spettacolo da cui nasce ma che allo stesso tempo lo supera, per farsi discorso interiore. Nel segno appunto della poesia.
Caino è uno spettacolo sull’umano, e sul buio che esso porta dentro, e su un’umanità costruita su “pilastri di dolore” che ancora chiede di essere amata. Da qui comincia il suo viaggio, e con quale desiderio, ci dice questo spettacolo fragile e bello come il suo oggetto. Nella prefigurazione di un nuovo inizio. Da parte di chi, amando, sia in grado di rifecondare la stanca vecchia specie.