• La maschera nera della Trilogia della villeggiatura

    Chi l’avrebbe mai detto, un Goldoni così divertente. Sarà il ritmo serrato già tenuto dagli attori, che  rivela ogni venatura di un testo di implacabile perfezione. Sarà la concentrazione imposta dalle dimensioni della scena, che amplifica ogni gesto. E sono poi quelle del palcoscenico del Piccolo teatro di Milano, dove ha debuttato la Trilogia della villeggiatura allestita da Toni Servillo con il respiro del grande teatro. Una semplice parete dipinta di un colore di terra che tira sul giallino, a stringere ancor di più verso il proscenio lo spazio agibile dagli interpreti. Due ingressi laterali. Al centro un’apertura che si apre in due battenti come un libro, a rivelare il piccolo ambiente retrostante, minimale “cambio di scena” a vista che rende immediato il passaggio alternato nelle due case fra cui monta la commedia.

    Di fronte al palcoscenico milanese è impossibile non evocare la lontana interpretazione che ne diede Giorgio Strehler, in uno dei suoi spettacoli più celebrati. Quello è evidentemente anche per Servillo un punto di partenza, a cominciare dalla scelta di riunire i tre testi in una sola serata, sottolineandone il disegno unitario. Ma reso il doveroso omaggio al maestro (un fondale che trascolora in malinconici grigiori rosati…), Servillo va per la sua strada, adattando il testo a una più personale visione, recuperando zone meno battute che ne accentuano la dimensione corale. In compagnia se mai di altri maestri. Non è certo un caso quell’eco eduardiana che par di cogliere a tratti, se a stacco fra le tre parti l’artefice introduce il motivo musicale che faceva da sigla alle versioni televisive delle commedie di Eduardo. Così, non sorprende che torni in mente la precedente messinscena di Sabato, domenica e lunedì. Anche qui sono in gioco tre diverse giornate della vita, tre diverse colorazioni sentimentali e emotive. E al centro resta quella stessa paradigmatica famiglia, colta qui nel fervore della nascente borghesia piuttosto che nell’opacità della sua erede napoletana. Le stesse smanie appunto, le stesse incomprensioni, lo stesso impulso a cercare una rottura di cui non si ha il coraggio, lo stesso desolato adattarsi alla realtà – dopo averla creata, quella realtà.

    Ecco allora che tutto il gran daffare delle Smanie per la villeggiatura, tutta quella comica infelicità, per un abito o per una donna, si traduce in una quiete da trincea, all’aprirsi della scena di Carlo Sala ad atmosfere cechoviane, fra una terrazza e un boschetto. Come una tregua. Un guardarsi a vista. Un misurare le forze proprie e altrui, mentre intanto si gioca a carte o si beve la cioccolata. Per tornare poi in interno, il medesimo duplice interno dell’inizio, ma in un clima già mutato. Quando della villeggiatura restano i debiti da saldare, anche quelli sentimentali. E anche la comicità si incupisce, diventa più torva e cattiva.

    Due mondi sono a confronto, nella Trilogia della villeggiatura. Quello giovanile, smanioso e regolato dalla passione – sicché, come un tormentone, si parte, no non si parte più, a seconda di quel  comanda la gelosia. E quello adulto. Tutt’altro che omogeneo, anzi un bel campionario di diversità e persino di bizzarrie, dai tre comandamenti, prudenza giudizio economia, che fanno da bussola all’azione del ragionevole Gigio Morra alla disincantata svagatezza di cui un perfetto Paolo Graziosi ricopre la propria neghittosa indifferenza, fino al delirio amoroso della non più giovane Betti Pedrazzi. E vuol dire anche due diverse generazioni di attori, dove si coniugano abituali compagni di scena dell’artefice (Andrea Renzi, Tommaso Ragno, Salvatore Cantalupo) a un sorprendente gruppo di giovanissimi (fra cui, oltre alla protagonista, bravissima Anna Della Rosa, risaltano Eva Cambiale e Chiara Baffi).

    Servillo ha riservato per sé la maschera sulfurea di Ferdinando, scroccone al di sopra di ogni vergogna. O meglio, fa di un personaggio comico una maschera nera che sembra uscire dalle stesse profondità infernali del più antico Pulcinella. Un Felice Sciosciammocca che può permettersi l’eccesso di un abito rosso, consapevolissimo delle contraddizioni del mondo in cui si muove. Dentro cui funge da elemento perturbatore, cioè smascheratore. Che stronzo, commenta forte la ragazzina della fila di dietro, durante una delle scene più crudeli, la sghignazzante lettura in pubblico della lettera scrittagli dall’anziana innamorata. E mostra di aver capito benissimo, per la sua parte, il senso della commedia. La sua crudeltà e amarezza. Il suo pessimismo di fondo. In fondo questo Goldoni non è così divertente.

     

     
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