• La memoria di una vita, o quasi. Daddi e Marconcini a Pontedera

    Ti accolgono sulla porta. Ti fanno accomodare all’interno, dove risuonano le note di una sinfonia mahleriana. Come padroni di casa felici di incontrare i loro ospiti. Perché questa è davvero la loro casa, da quando Giovanna Daddi e Dario Marconcini hanno messo piede in un teatro e non l’hanno più tolto. Quanti credi che siano? chiede lei guardando gli spettatori. Si sono seduti stretti l’uno all’altra su due sgabelli pieghevoli, al centro del vuoto spazio scenico del Teatro Era. Quell’unico arredo evoca già qualcosa di mobile e provvisorio, adatto a quel viaggio che è in fondo la vita. E per Marconcini che aveva contribuito a fondare il Teatro di Pontedera è quasi un nostos, un ritorno a casa.

    Foto di Roberto Palermo

    Quasi una vita si intitola lo spettacolo che Roberto Bacci e Stefano Geraci, il regista e il dramaturg, hanno costruito addosso ai due attori. Hanno raccolto i loro ricordi. Li hanno ricomposti, con molta attenzione a tenersi lontano dalla tentazione della biografia. E bisogna concentrarsi su quel “quasi” che apre tante possibilità. Un compimento che si avvicina, l’approssimazione che sempre si sconta nel raccontare un vissuto e può diventare menzogna…

    C’era una volta una ragazza con un cappotto di un color senape, alta, con i capelli neri a caschetto… Ma appena pronunciate quelle parole bisogna forse revocarle. Forse non è il modo giusto per cominciare. Siamo nel territorio della memoria ma la memoria è fragile e incerta, come si sa. Non per caso si scivola in fretta dentro altre parole, quelle scritte da Harold Pinter per la coppia di Notte. Daddi e Marconcini l’avevano interpretata qualche anno fa, in mezzo ad altri brevi testi dell’autore britannico.

    Ecco infatti un uomo e una donna che fra molti silenzi cercano di mettere insieme i frammenti del loro primo incontro. Ma i loro ricordi non combaciano. Forse era un’altra volta, forse con un altro uomo o un’altra donna. Quel che conta è che la memoria si definisce non come nostalgia ma come evocazione. Qualcosa che ha a che fare con la perdita.

    Il “quasi” porta dunque a quell’altra vita che è quella vissuta sul palcoscenico. Chissà quale delle due è sogno. Calderón insegna. Dopo tutto addormentarsi assomiglia all’andare a teatro, osservano. Fatto sta che il teatro si insinua nelle pieghe di una vita vissuta che incrocia le esperienze di tanti se non di tutti. La malattia, l’ospedale, la morte della madre che a un certo punto non voleva più vivere, ma anche i viaggi, il piccolo albergo coloniale con una balconata affacciata sull’oceano. Ecco il caro vecchio Faust, però visto attraverso lo sguardo di Thomas Mann. Attorniato da quattro figure vestite di bianco, vagamente mefistofeliche, che vorrebbero vendergli tempo (sono Elisa Cuppini, Silvia Pasello, Francesco Puleo e Tazio Torrini), forse degli aiutanti come appaiono in certi romanzi di Kafka secondo Agamben. Ma balena pure il “morire, dormire” di Amleto. Oppure il funambolo di Genet, il meraviglioso danzatore eletto a una solitudine mortale, delle tante metafore inventate per dire il segreto dell’arte scenica (a sua volta metafora di una ancor più segreta zona oscura dell’esperienza umana) quella forse più incisa nella carne. Insomma, non è per caso se lui, Marconcini, a un certo punto si ritrova con il volto truccato a forza di uno strato di bianco doloroso e clownesco.

    In realtà la scena non è del tutto vuota. Da un lato, un po’ più indietro, c’è una porta a due stipiti. Quando si apre da una parte, si chiude contemporaneamente dall’altra. È una replica della celebre porta di Duchamp, uno dei paradigmi delle avanguardie novecentesche. L’artista francese l’aveva installata nella sua casa. Ma c’entra poco l’omaggio ai cari maestri, la funzione a cui assolve qui è molto concreta, l’immagine che trasmette è molto nitida. La porta che si chiude apre a qualcos’altro. Una soglia da superare mentre ancora una volta ci si guarda indietro. “Scene dal Chissàdove” è infatti il sottotitolo. Per dire il luogo sconosciuto che si approssima mano a mano che cresce il sentimento del (proprio) tempo che passa. Esorcizzato dalle istruzioni per sopravvivere ironiche e tenere che lei fornisce a lui – perché lui, tanto amato, “non sapeva fare niente”. Prima di cadere nel silenzio. Con pudore, Quasi una vita racconta l’avvicinarsi a questa zona d’ombra, all’enigma del Chissàdove, nella progressiva presa di coscienza della fragilità tanto quanto dell’inalienabile dignità dell’uomo che accetta il suo destino mortale. E pazienza se ci hanno anche preso per dilettanti, dicono. Come dice Chaplin, non si vive abbastanza per essere di più.

    © Gianni Manzella

     

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