Rosso è il colore del sipario che chiude alla vista il palco dove va in scena Liebestod – El olor a sangre no se me quita de los ojos – Juan Belmonte, lo spettacolo con cui Angélica Liddell aveva dato una bella scossa al festival di Avignone dell’anno scorso (e qui all’Arena del Sole bolognese). Quando si solleva c’è Sindo Puche, abbigliato soltanto con una lunga gonna viola, al centro di uno spazio tutto giallo oro. Prima con una decina di gatti al guinzaglio, poi appoggiato a un monolite di kubrickiana memoria, mentre un suono stridente cresce d’intensità. Poi il rosso del sipario vira nel grigio e quando si solleva per la terza volta al centro della scena c’è ora Liddell seduta accanto a un tavolino dove si vedono una bottiglia di vino e un tondeggiante pezzo di pane. Solo a questo punto ci accorgiamo della bassa parete che corre lungo il fondale, con due aperture protette da altrettante barriere.
Pesa sull’artista di Figueras la fama di personalità abrasiva, voce trasgressiva all’interno di un mondo sempre più omologato. E lei non si tira indietro quando si tratta di mettere in campo un pensiero impossibile da metabolizzare, fino alla critica del testo per sottrarlo al luogo comune ed esaltarne la forza catartica. Conviene insomma sottrarsi all’interpretazione mitica e affidarsi al racconto. Che ci riporta al tentativo di comunicare con il sacro, come reazione alla desacralizzazione del mondo contemporaneo – tanto nell’opera del torero quanto sul palcoscenico.
Siamo dunque all’interno di una plaza de toros; dal vicolo dove si riparano toreri e inservienti fanno ingresso qui gli interpreti di Liebestod. Come ci si poteva aspettare, leggendo nel titolo tripartito il nome di Juan Belmonte, uno dei più celebrati toreri della prima metà del Novecento. Belmonte è colui che aveva innalzato l’arte del toreare a esercizio spirituale. Voler morire, solo questo serve per toreare – gli fa dire Angélica subito all’inizio. Ma è di sé che parla, vien da pensare. E del resto si erano già lette le parole di Emil Cioran assunte a epigrafe, “Giacché tutto in me è ferita e sanguinare”. All’altro capo c’è il Liebestod, la “morte d’amore” che chiude il Tristano e Isotta di Richard Wagner, fissando i confini che delimitano la creazione. E a far da tratto di congiunzione quell’ “odore del sangue che non va via dagli occhi” che l’artista ha preso in prestito da Francis Bacon, ispirato a sua volta dalla tragedia di Eschilo.
Rosso è il colore del sangue e anche quello del vino. Angélica Liddell si è tirata su lungo le cosce la gonna del lungo abito nero; si è versata un bicchiere di vino, accennando un brindisi all’indirizzo degli spettatori. Poi comincia a incidere piccoli tagli con una lametta sulle gambe e sul dorso delle mani. Spezza il pane e lo bagna nel sangue che esce dalle ferite in maniera vistosa, prima di metterlo in bocca, in un rito dall’evidente simbologia eucaristica. E sono ancora le parole di Cioran, al culmine della disperazione, a spingere verso una dimensione sempre più personale. Mentre lei si dibatte sulle note urlate di Asingara, il gipsy rock de Las Grecas (ma sì, l’abbiamo trovato su youtube). Yo sin su amor no puedo vivir. E accanto al pop ispanico ci saranno poi, sempre ad alto volume, anche le musiche di un organo da chiesa.
Quando il sipario si solleva nuovamente c’è in scena un grande toro nero. Lei gli gira intorno con un turibolo che getta fumi di incenso, anticipando il rituale di morte che si prepara. Ed è un lungo testa a testa tenero e rabbioso, fra ululati onomatopeici e tentativi di seduzione. Salta e urla. Gli mostra un po’ le gambe e gli offre un fiore. Gioca a far salire il volume della musica. Gesticola, allestisce tutta una pantomima. Si appende alle corna dell’animale. Calpesta il libro con le parole di Cioran. Inginocchiata dinanzi al toro lo supplica: uccidimi, uccidimi. Indossa un abito bianco a balze per la danza di una sivigliana: così doveva apparire Antonia Mercé, la Argentina che aveva abbagliato Ōno Kazuo al Teatro imperiale di Tokyo, negli stessi anni in cui il torero Belmonte era al culmine della fama. E siccome il toro non la uccideva…
Il toro non c’è più. Per un attimo scendono dall’alto affiancate le due metà dell’animale squartato. Rimasta sola l’attrice afferra un microfono e dà il via a un lungo monologo rivolto al pubblico che è un po’ confessione personale che tracima nell’autodiffamazione, un po’ insulti al pubblico, per stare al linguaggio caro a Peter Handke – c’è in effetti qualcosa in Angélica Liddell che ricorda lo scrittore austriaco. Autoritratto in dialogo con se stessa, o forse con quell’altro io evocato da Arthur Rimbaud nel suo destabilizzante “Je est un autre”. Che infatti da ultimo compare in scena, Rimbaud intendo, nel corpo di un giovane uomo mutilato come il poeta al ritorno dall’avventura africana, con cui si compone una oleografica Pietà. Il pubblico è stanco delle tue storie, Angélica. Non fai altro che urlare, ti detestano, ti deridono. Ma il ritratto di sé come “vecchia puttana” senza figli, senza fratelli, senza amici, senza marito che recita per ricevere l’applauso di tutti questi sconosciuti perché incapace di farsi amare da qualcuno, stufa di scrivere per donne e maricones, slitta in un implacabile attacco a tutto ciò che è “moderno” – diritti e preoccupazioni ambientali ma senza fede né amore, accordi sindacali, bambini educati come se dio non esistesse, giovani che scendono in piazza per assicurarsi una pensione…
Rosso è il colore del tramonto che tinge la scena quando ormai questo atto sacrificale volge al termine. Da un lato giace il toro abbattuto. Lei si prepara a incontrarlo vestendo i tradizionali del torero. Quando è pronta, può accostarsi al corpo senza vita, accarezzarlo, parlargli con le parole di Isotta per Tristano o forse è Tristano che ora si rivolge a Isotta, senza più separazione nel grande Tutto. Se potessi andare in Africa a cacciare leoni, dice Angélica Liddell… Siamo dunque ancora a Rimbaud? Il giovane che, consumata la stagione della creatività, volta le spalle alla storia e si fa avventuriero… Ma no, l’Africa di Angélica Liddell è una danza gioiosa con cui festeggiare l’amore ritrovato. Ti amo, Heysel.
Questo è il racconto di Liebestod. Come si è detto altre volte, non si consuma facilmente il teatro di Angélica Liddell. Non lascia facili vie di fuga o conclusioni consolatorie. Ma è capace di offrire una forza critica e liberatoria allo spettatore che, privato di regole rassicuranti, accetti di prendere parte alla sua creazione di senso.
© Gianni Manzella