Politica ritmo parola. Sono i termini che nel tempo hanno fissato i confini entro i quali si muove il teatro di Maguy Marin in fuga dalla danza. Le sue linee guida, si potrebbe dire altrimenti. Era una ragazza dal viso senza spigoli e un sorriso un po’ ironico, trent’anni appena compiuti e un gusto molto colorato per una trasgressione più disinvolta che provocatoria, quando aveva stupito tutti e fatto innamorare molti con quel May B che si voleva ispirato al teatro di Samuel Beckett ma richiamava piuttosto un universo di fantasmi da Classe morta alla Kantor. Una decina di figure imbiancate, morti viventi tratti fuori dalla memoria, come in quell’altra memorabile creazione di pochi anni precedente, si muovevano ondeggiando per la scena. Seguendo un ritmo comune ma conservando ciascuno una propria individualità, anche fisica oltre che gestuale. E di lì a seguire, in quei lontani anni ottanta del secolo scorso, una serie di altri lavori che restano nella memoria. L’erotismo nero di Hymen, le tentazioni fastose Cendrillon, i colonialistici paradisi perduti di Eden…
Parola ritmo e politica sono anche le didascalie che si potrebbe attribuire ai tre lunghi tavoli su cui stanno distesi i materiali estratti dagli archivi di Maguy Marin messi in mostra a cura di Paul Pedebidau al Teatro Due che ospita, insieme a I Teatri di Reggio Emilia, il progetto La passione dei possibili, dedicato dal Reggio Parma Festival all’artista di Tolosa. Un mese di spettacoli, workshop, incontri, un film, una mostra fotografica di Piero Tauro e questa esposizione appunto. Si intitola Le travail à l’épreuve. Il lavoro alla prova, ma qualcosa si perde nella traduzione. Sono quaderni aperti a una pagina forse cruciale, scritti autografi o a stampa, fotografie e qualche video però acceso su display di piccole dimensioni in modo da non prevaricare sugli altri materiali. Uno schema a blocchi riassume graficamente su un quaderno l’origine del profitto secondo Marx, ma politica è prima di tutto l’impronta che dà al suo lavoro. L’artista confessa di aver sempre conservato tutto, ma senza dare troppa importanza a questi materiali fino al momento in cui le è stato proposto di riunirli in una mostra.
Ecco allora aprirsi davanti a chi si accosta ai tavoli i fogli ancora graffettati estratti da raccoglitore, dove sono appuntate le sequenze dello storico May B accanto ai diagrammi di flusso dei movimenti degli interpreti ma anche le immagini di una scena dello spettacolo. Per passare con un salto di più di dieci anni, siamo a metà dell’ultimo decennio del Novecento, ai fogli che introducono le due parti complementari di RamDam in cui Marin torna a confrontarsi con il teatro di Beckett e la «zuppa» scenica di Waterzooi, basato invece sugli scritti di Descartes. «Talking is an exercise in constant contradiction», si legge in una scheda di RamDam. È una citazione da L’innommable. La parola si è ormai accampata dentro il teatro di Maguy Marin. Fondamentale però è soprattutto l’emergere del ritmo come tramite tra lingua e corpo, la lingua che si fa corpo, capace di dare voce alle passioni. Un ritmo compositivo che trova espressione nei colorati grafici con cui l’artista cerca di rendere i movimenti corali degli interpreti sulla scena.
C’è un solo attore in scena in Singspiele ma alle prese con una moltitudine di personaggi, se così vogliamo chiamarli, generati dalla vorticosa metamorfosi cui si sottopone l’interprete. E forse risponde a una strategia precisa la scelta di inaugurare la rassegna del Reggio Parma Festival con questa performance del 2014, interpretata da David Mambouch, cineasta e all’occorrenza performer, oltre che figlio di Maguy Marin. Qui l’ex allieva di Béjart si mette alla prova su un terreno lontanissimo dalla danza. L’attore si muove su una stretta passerella addossata a una parete di un bianco malmesso, su cui stanno appesi gli abiti che andrà via via indossando. Complementari ai volti che pure indossa tramite un telaio che porta sul viso, foto in bianco e nero che strappa rapidamente dopo che l’immagine si è composta e per un momento è rimasta sospesa nella posa che gli si addice. Volti anonimi o facilmente riconoscibili, poco importa. Ciò che è in gioco, politicamente, è il riconoscimento di cui ciascuno ha bisogno in questa sola moltitudine.
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Quattro cronache per Maguy Marin (1987-1997)
Più che al sogno somiglia all’incubo il mondo creato dalla fantasia di Maguy Marin. Lo sguardo amaro e grottesco della giovane coreografa di Tolosa, ex allieva di Béjart e oggi esponente di punta della nuova danza europea, non si tira indietro neppure davanti al mondo della fiaba e a un classico moderno del balletto qual è la Cenerentola di Prokof’ev, reinventata su commissione del Lyon Opera Ballet.
Maguy Marin rifugge dall’astrazione. C’è nel suo lavoro una vocazione teatrale che va al di là della pura scelta compositiva. Il movimento vi appare sempre messo al servizio dell’immagine, della concretezza della scena dove viceversa può lasciare libero il suo estro. Sia che affronti temi ed atmosfere beckettiane all’interno di un universo da Classe morta alla Kantor, nell’impressionante May B che qualche anno fa la impose all’attenzione di un pubblico più vasto e diverso da quello tradizionale della danza; sia che accentui il suo gusto barocco come nel più recente e discutibile Hymen.
Meno immediatamente e volutamente sconvolgente è questo Cendrillon, realizzato non con il suo gruppo abituale ma per la compagnia dell’Opera di Lione. Eppure anche qui, davanti a una partitura ben precisa e a un classico del balletto moderno, sia pure da ricreare in forme nuove, Maguy Marin trova modo di ritornare ai temi che più toccano la sua sensibilità e il suo bisogno di comunicare, a cominciare dalla perdita dell’innocenza. Nell’affrontare la favola di Perrault la regista-coreografa si è rifatta a quel mondo dell’infanzia che dovrebbe esserne il naturale destinatario. Per parlare non all’infanzia ma dell’infanzia, con un pizzico di nostalgia ma anche molta consapevolezza della crudeltà che la circonda. Un modo che appare all’aprir- si del sipario come una grande scatola magica, divisa con una serie di scomparti su più piani dove si illuminano via via i suoi giochi, in una luce diffusa e dai colori intensi. Soldatini e bambolotti, cavallo a dondolo e macchinina vi stanno in ordine ma in scala minacciosamente ingrandita.
Il risalire del velo che chiude di fronte la scena è come l’aprirsi di uno squarcio che permette di entrare in quel mondo addormentato che ne rimette in moto il meccanismo fermato dal tempo, e rianima la fantasia, quella regolare struttura che si rivela uno spaccato di una casa si bambole, con le sue stanze e i suoi abitanti, i personaggi della favola, pronti a farla rivivere ancora una volta davanti ai nostri occhi. Ma quello squarciò produce anche una luce più dura, capace di rivelare dettagli imprevisti. Cosi come qualche disagio provocano le maschere che tutti gli interpreti portano sul viso. Se da un lato queste richiamano l’immobilità dei personaggi della favola, quasi che uscissero da una qualche tavola di un libro illustrato, con un volto reso immutabile dal ricordo; dall’altro proprio le nuove dimensioni assunte dal viso ne fanno personaggi da incubo. Non si cambia impunemente la scala delle cose, come insegna la fisica.
Eccola qua la piccola Cenerentola alle prese con una ramazza più grande di lei. Coperta solo da un grembiulino sulla calzamaglia chiara sembra ancora più nuda, più imbarazzante nel suo proporsi come infantile oggetto erotico, più indifesa davanti alla matrigna e alle sorelle che hanno muscolature imbottite alla Popeye. Domina figurativamente la cultura dei fumetti. Da un vecchio albo di avventure sembrano tratti quei capelli ritti sulla testa come alberelli, quei cani e gatti in tuta spaziale. Ma dietro le faccione rotonda dei bambolotti sta in agguato un che di minaccioso, come se da quei giochi, da quelle illustrazioni potessero scatenarsi d’improvviso misteriose presenze alla Poltergeist.
La fata dalla fiaba sta rinchiusa dentro un pupazzo colorato che spunta con uno sbuffo di fumo da una gran valigia, però viene fuori come una «cosa» aliena da quella stoffa innocente. Per rivelarsi poi una sorta di androide che comunica telepaticamente muovendo come magica bacchetta una spada di luce da Guerre stellari.
È del resto, questa di Maguy Marin, una Cenerentola che conosce l’immaginario visivo contemporaneo. Che se ne va da sola alla festa del Principe, guidando la sua automobilina. E il Principe poi, debitamente azzurro dai piedi ai capelli, porta in testa una corona di lucine intermittenti. Ieri e oggi si mescolano sotto il denominatore comune del gioco, il tetro gran ballo di corte sbocca in un pranzo a base di enormi lecca-lecca. C’è naturalmente di meglio, il gusto per la teatralità di Maguy Marin, la ricerca di invenzioni che vanno d’accordo benissimo con il meraviglioso della favola. Ma la dissoluzione della danza in un movimento da automi, cosi come lo spezzare la musica di Prokof’ev con inserti di voci e pianti infantili, non è solo uno sberleffo estremo alla tradizione del balletto. Perché in fondo la storia di Cenerentola, quella che certo interessa di più a Maguy Marin, è la storia di una educazione, che per una danzatrice quale anche lei è stata vuole dire proprio imparare i «passi» come qui si insegna alla protagonista, in uno dei brani di più lungo incanto. Per una festa da cui si dovrà comunque scappare.
(1987)
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Sono fatti della stessa materia di cui son fatti gli incubi, i personaggi di Maguy Marin. Esseri fiabeschi pateticamente mostruosi, che si muovono goffi e ondeggianti sotto il peso di un corpo deformato da escrescenze, spaventose metastasi. Così appaiono nella bellissima immagine iniziale di Coups d’Etats, mentre strisciano fuori dal bozzolo con cui sono entrati in scena, un tubo a soffietto li rende simili a enormi vermi, coloratissimi. Si muovono agli ordini di un pifferaio dalla grande corona regale, compatti e sottomessi fino a che uno scoppio di rivolta rovescerà quel precario ordine gerarchico.
Spettacolo dopo spettacolo, la giovane stella della nuova danza francese sta costruendo in maniera molto personale la storia di un mondo nuovo, e allo stesso tempo antichissimo. Un mondo generato dall’incubo atomico, non a caso singolarmente consonante con quello altrettanto angosciante della danza giapponese butoh. Il suo Eden, come si intitolava lo spettacolo di Maguy Marin visto da noi la primavera scorsa, non era un paradiso perduto ma un affresco alla Hieronimus Bosch, popolato da guerrieri stupratori in armatura e da relitti dell’immaginario cinematografico.
Con Coups d’Etats siamo a una vera e propria cosmogonia che richiama l’ininterrotto succedersi di violenze del mito arcaico, di lotte per il potere non fra titaniche divinità ma fra creature di un sottobosco oscuro, gnomi in perenne conflitto per il possesso di una corona che basta solo per poco ad assicurare un’autoritaria supremazia, il diritto alla parola con cui impartire ordini in una lingua incomprensibile. I sussulti di rivolta si susseguono ferocemente, cambiando a turno il detentore del potere. E il sovrano spodestato dovrà subire la vendetta dei dominati, prima di rientrare nel gruppo, martirizzato come un San Sebastiano o trasformato in un bersaglio di vernici.
Non c’è evoluzione, in questo succedersi di stagioni anche quando cambiano gli strumenti alchimistici di cui si addobba questo microcosmo. Domina un ironico pessimismo, dove ognuno è a turno carnefice e vittima alla maniera del Come è di Beckett, autore evidentemente caro alla coreografa francese, che proprio con uno spettacolo ispirato al grande drammaturgo irlandese, May B, si era imposta a livello internazionale qualche anno fa. Domina soprattutto l’elemento del gioco, del caso, che trova espressione figurativa in un succedersi sulla scena di ruote della fortuna con i segni zodiacali, carte dei tarocchi, tiri a segno da fiera, fino all’enorme dado in cui viene imprigionato un re spodestato. Certo, è forte il rischio che questa visione pessimistica della storia (Maguy Marin fra l’altro è figlia di esuli dalla Spagna franchista) scivoli nel quadretto didascalico. E il moralismo sta sempre in agguato dietro il gusto per la trasgressione.
Lo si avverte chiaramente alla fine di questo spettacolo, quando, vestiti i panni di una generica contemporaneità, si trovano di fronte due piccoli despoti alle prese con la smania di affermare una qualsiasi superiorità. Dagli inchini che si scambiano nel delimitare i rispettivi confini arrivano prevedibilmente al confronto armato, concluso sull’immagine di un piccolo paese in fiamme. E per fortuna interviene un colpo d’ala capace di spostare verso Ubu re la fragorosa battaglia.
C’è in effetti nel teatro di Maguy Marin un gusto per l’immagine forte, visivamente sovraccarica, gonfiata dalle musiche a tutto volume. Una fantasia barocca che richiama il nostro Carmelo Bene degli anni sessanta. A volte strabordante, quando non trattenuta nei binari di una partitura rigorosa come nel suo Cendrillon. E a questo mondo onirico, che non teme di scavare nelle paure e nelle perversioni dell’inconscio, bisogna proprio lasciarsi andare, pena l’allontanarlo da sé con fastidio.
(1988)
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Hai voglia a dirti che non bisogna fidarsi delle apparenze. Con quei fuseaux rossi e quella maglia bianca e verde, che tutt’insieme fanno una bandiera, l’immagine di Maguy Marin trasmette immediatamente il gusto di un eccesso più disinvolto che provocatorio. Una bella differenza dall’eleganza severa e monocromatica di Pina Bausch. Dell’eclettismo la coreografa francese sembra aver fatto quasi uno stile, in cui ha mescolato senza fonderle la sua tradizionalissima formazione ballettistica con la modernità della scuola di Béjart e l’attrazione gravitazionale verso un’esplicita teatralità, comune del resto ad altre signore della danza contemporanea. Fino a teorizzare la volgarità che permea la visionarietà dei lavori cresciuti dopo la rivelazione del beckettiano May B, dall’erotismo nero di Hymen ai colonialistici paradisi perduti di Eden.
C’è forse un pizzico di autoironia nella scelta di intitolare Waterzooi questo suo lavoro, col nome cioè del più popolare piatto fiammingo, pollo bollito con le patate e le verdure; un titolo che sa di cucina, di odori robusti e vapori, di ingredienti saporosi (non si scherza col cibo, il controllo sociale di un pranzo di gala vince su un mazzo di rose gialle, spiega L’età dell’innocenza). C’è ironia certamente nell’inserto da comica del coreografo esagitato che traduce in significati immediati la sequenza dei propri gesti. Quasi a suggerire, da parte di Maguy Marin, una personale preferenza per una «zuppa» (scenica, ben s’intende) rispetto alle finzioni delle teorie. E invece questo Waterzooi è un bel salto all’indietro verso un’essenzialità capace di temperare la naturale propensione ludica della coreografa. E non solo per l’ispirazione cartesiana che sta alla base del didascalico percorso attraverso le passioni umane. Conta semmai di più una certa qual povertà di mezzi che esclude in partenza le tentazioni fastose di spettacoli come Cendrillon, formalmente impeccabile ma con i segni ben visibili dello spettacolo di consumo accattivante nato su commissione. Via del tutto la scenografia, via anche i costumi, sostituiti dagli abiti comuni e un po’ dimessi che sono quasi una divisa dopo Bausch: e sottolineano la negazione dei canoni fisici del balletto, quasi una crudele assunzione della bruttezza del quotidiano. L’omaggio alla maestra di Wuppertal è del resto esibito senza infingimenti, già da quella presentatrice che al microfono scandisce le azioni, da quel giocare agli schiaffi pedagogici, dal chiamare gli interpreti a dire il perché del loro essere felici o tristi.
Ma quel che lascia da una parte, Maguy Marin lo recupera da un’altra, inventando una vera e propria scenografia sonora, un ambiente di suoni in cui si dipanano i movimenti degli interpreti. Già tramutati in attori, i danzatori diventano anche musicisti di sé stessi, con una scelta di autonomia che è anche un segno politico. Eccoli sfilare al suono monodico delle armoniche a bocca. O muoversi al passo di richiami per uccelli. Trasformarsi in tanti diavoletti dalla maschera bovina che danzano una rallentata tarantella accompagnata dai loro campanacci, in una addolcita reinvenzione della nascita della tragedia. L’amore ha le sonorità di tre pianofortini alla Schroeder, il piccolo Beethoven linusiano, e movenze da bambole meccaniche, prima che la coppia di amanti si perda nel proprio film fatto di contatti, sospiri, parole sussurrate, acrobazie di abbracci, contorcimenti di corpi intrecciati, lotte e abbandoni. Così come l’odio davanti al corpo dell’uomo inerme e nudo, quasi livinghiano, è sottolineato da un basso ossessivo strusciato da un archetto.
Non ci sono generi che tengano, per Maguy Marin, lo si vede bene. Comico-tragico-storico-pastorale, aveva già ironizzato Shakespeare per bocca di Polonio, di fronte agli attori convenuti alla corte del principe Amleto, i migliori attori del mondo in ogni genere appunto. Ci mancherebbe che si stesse ancora qui a discutere di questo. Ma non è un caso forse che, in un momento in cui vien da dubitare sovente della stessa sopravvivenza del teatro, le emozioni più acute siano venute di recente da creazioni che cercano comunque di rompere un argine, di andare oltre i limiti della scena. Dalla seduzione visiva del Doctor Faustus secondo Robert Wilson al silenzio di Edith Clever davanti alla fossa del Principe di Homburg. Questo forte spettacolo (non tutto dello stesso livello, ma che importa?) sta di sicuro sullo stesso fronte di resistenza.
(1993)
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Uno spettacolo di Maguy Marin è sempre una sorpresa. L’eclettica coreografa francese si era rivelata con un violento omaggio al mondo di Beckett, il crudele May B, più vicino alle ombre del teatro di Kantor che non al neoclassicismo della scuola di Béjart dove si era formata. Da allora la discontinuità è stata il segno più visibile delle sue creazioni, dal mondo infantile del favolistico Cendrillon gonfiato a incubo nelle dimensioni colossali dello spettacolo di consumo al gusto barocco per l’eccesso che esplodeva con l’erotismo nero di Hymen o i paradisi perduti di Eden; fino alla programmatica «zuppa» promessa nel titolo del più recente Waterzooi che siglava al contrario un salutare salto all’indietro verso l’essenzialità.
L’ultimo lavoro si intitola misteriosamente RamDam e torna a rendere omaggio al grande irlandese, tramite le parole rubate al romanzo Come è. Senza concessioni al beckettismo clochard. In scena, all’inizio, gli interpreti sono seduti da un lato, e dell’animata conversazione arriva solo il rumore di fondo. Poi si alzano, le sedie spariscono e sulla scena che resterà vuota ci sono soltanto i loro passi. E le loro voci, che risuonano amplificate dai piccoli microfoni che portano davanti alla bocca. Frasi incongruenti che si staccano da un contesto comprensibile. Dati sociologici sui postini di Parigi, percentuali sui reati sessuali o le infezioni virali. Denunce giornalistiche sugli interessi privati di qualche ministro.
Ma soprattutto quelle voci amplificate creano la rumoristica colonna sonora su cui si muovono i dodici danzatori, alternando i passi a due con le traversate a ritmo di marcia che si sciolgono nei movimenti del ballo, deliziosamente anni sessanta. O forse sono gli abiti a riportare indietro la memoria, gli uomini in giacca e cravatta ancora non griffati, le ragazze con i vestitini corti e i capelli raccolti. Memoria di coreografie tv in bianconero, Abbie Lane e le Kessler, anche se qui è un’uniforme luce rossa o gialla a rendere a tratti monocromatica l’immagine. Ancheggiamenti giudiziosi e rallentati, una mano sullo stomaco e l’altra sollevata all’altezza del viso.
Ogni tanto qualcuno si stacca dal gruppo e si lascia andare a più pensosi contrappunti filosofici. Dialoghi interiori con la coscienza, cui gli altri guardano con un breve stupore. Dichiarazioni d’amore alla parola che però, quando è il momento di comunicare, non va oltre due formule di saluto, buongiorno e grazie. A vincere sono piuttosto le cronache dei tabloid. Le avventure sex and sun delle principesse Fergie e Lady D, l’andirivieni fra i Caraibi e una visita ai bambini in ospedale.
Accade qualcosa di strano in questo paese e non si capisce bene cosa sia, dice una voce fra le altre. Non lo cantava già Bob Dylan all’anonimo mister Jones di quegli anni? Ma il 1960 di Maguy Marin non è festa propiziatoria come il 1980 di Pina Bausch, è del presente che vuol parlare. Il tempo passa, la vita continua. Pure sulla scena, anche se è ancora un iterativo «buonasera» a introdurre la seconda parte del dittico, mentre il pubblico prende coraggio e risponde a voce alta ai saluti. I costumi si sono fatti più liberi, gli uomini sono in camicia, le ragazze hanno sciolto i capelli. Sul fondo si stende ora una fila compatta di strumenti musicali, ingombranti percussioni. A condurre la danza non sono più le voci ma un concerto fragoroso di colpi di timpani gong grancasse, persino una tinozza. Un ritmo cardiaco ossessivo su cui svetta lancinante il suono di una chitarra elettrica sfregata con un archetto: il fracasso del mondo, il vuoto della storia, cui la parola può opporre solo un minimalismo ripetitivo. Tuttavia umano.
(1997)
© Gianni Manzella
La fotografia sulla homepage è di Michel Cavalca