• La piccola borghesia fra melodramma e vaudeville. Marthaler e Ostermeier alla Biennale di Venezia

    È stato qui a Venezia che una quindicina d’anni fa si era incontrato per la prima volta Thomas Ostermeier. Il regista bavarese, appena approdato poco più che trentenne alla direzione della prestigiosa Schaubühne berlinese, si era presentato alla Biennale con un programmatico Shopping & Fucking che indicava senza mezzi termini, anche attraverso la scelta in favore della nuova drammaturgia britannica (Mark Ravenhill nello specifico, ma c’era stato anche un frenetico Disco Pigs di Enda Welsh che faceva ballare la disperata vitalità dei suoi giovani protagonisti), la volontà di stare attaccati ai temi del presente. Da allora l’aggancio alla contemporaneità è sempre stato per Ostermeier un partito preso, anche quando si è trattato di mettere in scena Ibsen o Shakespeare.

    Può stupire allora questo Die Ehe der Maria Braun, ovvero per noi Il matrimonio di Maria Braun, tratto dal film di Rainer Werner Fassbinder del 1979, che fa deliberatamente un passo indietro rispetto al presente, arrestandosi sulla soglia di quell’“ora zero” della storia tedesca cui Marthaler aveva già dedicato un beffardo omaggio. Di Fassbinder forse interessa a Ostermeier l’ambiguità di fondo, quel lasciare poco spazio per un finale catartico o peggio ancora consolatorio che ritroveremo nel Nemico del popolo visto sempre a Venezia due anni fa e più di recente a Napoli (Il matrimonio di Maria Braun, prodotto a Monaco nel 2007, lo precede di cinque anni).

    Il primo segno che il regista offre allo spettatore è la scena priva di sipario, aperta allo sguardo. Anche gli attori sono già lì, a turno si affacciano alla ribalta, scrutano gli spettatori in platea. Una distesa di poltroncine di modernariato, distribuite senza un ordine preciso, ai lati tendaggi di un brutto colore verdognolo che a tratti si apriranno senza una ragione apparente, rivelando dietro solo le pareti nude del teatro Goldoni.

    Siamo lontanissimi dai raffinati ambienti altoborghesi accuratamente ricostruiti nei primi Ibsen del regista, il bellissimo e cruento Nora, il gioco di specchi di una crudele Hedda Gabler. Ritratti di donna in un interno da rivista di arredamento, fra grandi divani di pelle e pareti vetrate, che la rotazione della scena, cara alla pratica teatrale di Ostermeier, mostrava da diverse prospettive, anche di sbieco e da dietro, quasi a volerci spingere a rinunciare a un unico punto di vista sulle cose. Ma lontani anche dall’interno alternativo e rockettaro del già citato Nemico del popolo, per restare a Ibsen, che del mondo borghese mostrava l’altra faccia.

    Siamo piuttosto in un non-luogo, nello spazio neutro di una rappresentazione dove cinque attori mettono in scena il passato della Germania. O forse in una Wunderkammer in cui sono conservati, senza metodo né sistema, i cimeli di un passato che non passa. Sono le foto sbiadite che scorrono silenziosamente sul fondo, immagini di donne soprattutto, come femminile è la fascinazione che trasmettono le lettere d’amore ad Adolf Hitler che vengono lette al microfono con tono neutro, senza partecipazione, sono documenti veri ripescati in qualche archivio. Ma poi sullo schermo volano i bombardieri e il frastuono copre le voci. E viene subito in mente quanto è cambiata la prospettiva rispetto al 1979 di Fassbinder, e non solo perché allora la Germania “d’autunno” era ancora un paese diviso in cerca di un’identità, mentre ora si sente di nuovo centro e motore dell’Europa, con un po’ di insofferenza per chi non sta al passo. È che quel passato si è allontanato, e bisogna in qualche modo riportarlo in vita.

    Intanto ha preso a scorrere anche la storia di Maria Braun, il matrimonio con il suo Hermann durato un giorno solo e tanti anni di attesa, l’intrepido voler far carriera per essere pronta al suo ritorno. È un brutto momento per avere dei sentimenti, dirà a un certo punto. E naturalmente c’è anche la storia del paese, della sua borghesia, fin troppo trasparente, in quel suo diventare l’amante di un soltanto americano nero, un po’ per celia e un po’ davvero per non morire, che poi lei ucciderà quando il suo Hermann tornerà a sorpresa, ormai non più atteso; per passare poi fra le braccia di un industriale francese, mentre il marito ritrovato è di nuovo lontano, in carcere al suo posto.

    Solo la protagonista, Ursina Lardi, ha un ruolo fisso, quello che nel film era interpretato da Hanna Schygulla; i quattro attori interpretano invece tutte le altre numerose parti, maschili e femminili. Basta una parrucca o una sottoveste. Ma senza volontà alcuna di immedesimazione. Ciò che nel film di Fassbinder era melodramma raggelato qui viene giocato sul piano di una teatralità elementare, tutta a vista, quattro poltrone accostate sono lo scompartimento affollato di un treno, o l’interno di un’automobile in corsa.

    Quattro lampadari scendono uno dopo l’altro dall’alto a scandire con il loro diverso stile lo scorrere veloce del tempo. La velocità è in effetti il segno dello spettacolo. Se romanzo di formazione deve essere, occorre che la protagonista ne impari in fretta la lezione, quasi si fosse in un dramma didattico brechtiano. Il mondo intorno cambia in fretta, non c’è posto per chi resta indietro, attardato dietro fantasmi sentimentali. Anche tutte quelle sedie sono state spazzate via, sono comparsi un frigorifero e un televisore, e ormai da giovane manager può frequentare ristoranti di lusso servita da uno stuolo di camerieri che imbastiscono una pantomima per ogni bicchiere da riempire o piatto da cambiare.

    4 luglio 1954. La Germania è campione del mondo. In quel momento la guerra è davvero finita, quando l’arbitro fischia la fine della partita di cui la radiocronaca restituisce un’eco. Finisce anche il matrimonio di Maria Braun, con un boato. E il fuoco che divora la pellicola in cui è impresso sembra distruggere per sempre anche quelle vecchie immagini d’archivio. La nuova Germania è pronta ad andare per la sua strada. Senza guadarsi più indietro.

    *

    È tutto un grande addio, un giorno Gondrand passerà – cantava la Fuga all’inglese di Paolo Conte. Chissà perché viene in mente ora. Non la troviamo fra i tanti brani musicali che si affollano nella partitura drammaturgica di Das Weisse vom Ei/Une île flottante, lo spettacolo per molti versi sorprendente con cui Christoph Marthaler si è presentato al festival della Biennale teatro, che lo premia con il Leone d’oro alla carriera. Non è sorprendente che il regista svizzero abbia scelto di lavorare sulle commedie di Eugène Labiche, capofila del vaudeville francese dell’Ottocento, concentrandosi poi su La poudre aux yeux. Non ha moltissimo rilievo quale sia la base testuale delle sue creazioni, siamo cioè al di là della rappresentazione. E resta il sospetto che il suo teatro così allegramente musicale abbia comunque un po’ a che fare con il vaudeville, un vaudeville del XXI secolo naturalmente.

    Sorprende per esempio quell’ingresso in fila degli otto interpreti a sipario ancora chiuso. Come a presentarsi al pubblico. (Lo fa spesso invece Robert Wilson). Immobili al posto assegnato, hanno cominciato a dire le loro battute. Brevi, molto ripetitive. Alternando due lingue, come nel titolo dato allo spettacolo, francese e tedesco. Non ci se ne rende conto subito, ma è il distillato di una commedia di Labiche, quello che scorre così sbocconcellato in tre minuti. Una sorta di incomprensibile rewind testuale, di scorrimento veloce che toglie subito ogni illusione di comprensione.

    DasWeisseVomEi_marthaler

    All’interno dello spazio scenico che lentamente si illumina (un mondo chiuso, per potervi penetrare gli attori sono stati costretti a passare al di sotto del sipario), il testo riprende invece rallentato fino ai limiti di ciò che è sopportabile senza imbarazzo. Una parola, una pausa lunghissima, un’altra parola. Nessun gesto. E così distanziate quelle parole sembrano scolpite, rivelando però il nulla di cui sono fatte, altro che teatro dell’assurdo. A parlare, dai lati opposti della scena, sono all’evidenza marito e moglie. Lui seduto dietro la scrivania; lei su una delle tante sedie e poltroncine che ingombrano la scena.

    Se infatti le parole si allontanano l’una dall’altra, le cose sembrano invece stringersi l’una addosso all’altra in quello spazio chiuso che rappresenta la casa. O forse bisognerebbe scrivere la Casa, con la maiuscola, in quanto paradigma dell’istituzione borghese che tutto tiene insieme, famiglia, ambizioni, decoro… Non c’è un angolo libero nella scena disegnata come sempre da Anna Viebrock. Ritratti di famiglia anche assai grandi alle pareti. Tavoli e sedie e divani. Allusivi animali impagliati. Un’arpa, che suona però come un pianoforte. Anche la ribalta è occupata da una schiera di tavolini zeppi di ninnoli.

    Di cosa può parlare la vecchia coppia? Soldi e matrimoni, naturalmente. Lui è un medico senza pazienti, salvo un cocchiere che ha preso un calcio dal cavallo. Lei osserva con preoccupazione l’eccessiva assiduità con cui il maestro di musica della figlia frequenta la casa. Bisogna che chiarisca le sue intenzioni. Eccolo infatti il giovanotto, che cammina un po’ storto solo per segmenti di retta e pronuncia a ripetizione il nome di lei, Emmeliiine, in una specie di implorante lamento. Mentre la ragazza gli risponde con un latrato gutturale. E c’è anche un maggiordomo o maestro di cerimonia anglofono che manovra con gesti teatrali il telecomando con cui può togliere il sonoro alla scena, dove il continuo scampanio di una pendola si sovrappone alla musica da film in sottofondo. Quando compaiono anche i genitori del giovanotto il gruppo di famiglia si completa. Parlano lingue diverse ma sono la stessa cosa, due diverse coniugazioni della stesa realtà (umana, sociale…), non cambia infatti la casa che ci siano dentro gli uni o gli altri.

    Dalla commedia di Labiche viene il germe del plot, la spinta a gettarsi mutuamente “polvere negli occhi”, cioè a fingere una condizione sociale e mezzi economici che non ci sono, con tutti gli equivoci che ne derivano (ed è interessante che questa pulsione sia attribuita dallo scrittore francese alle due madri). Ma questo pretesto, alla lettera, nelle mani di Marthaler diventa l’occasione per imbastire una girandola di situazioni comiche, di impicci linguistici, di slittamenti di senso, di intrecci testuali ritmati dalla drammaturgia di Malte Ubenauf (vi fanno capolino altri testi di Labiche, monologhi allusivi a storie misteriose, dei versi di Lewis Carrol…). La partitura gestuale moltiplica le gag spingendo i bravissimi attori senza imbarazzi oltre la soglia dello slapstick delle comiche (il giovanotto scavalca la buccia di banana per terra e mentre si volta soddisfatto a guardarla inciampa e cade; le sedie si rompono e chi sedeva vi rimane incastrato…). Il resto lo fa il tessuto musicale come d’abitudine privo di confini di tempo o di genere (l’orchestra di James Last, lo chansonnier francese Boby Lapointe…), una vera e propria drammaturgia parallela che esplode alla fine con la corale Downtown resa celebre da Petula Clark…

    Si ride, inevitabilmente. Ma è un riso rarefatto anch’esso. Questa perdita di senso non lascia tranquilli. Si ride di questi personaggi un po’ patetici e un po’ ridicoli, delle loro smanie e delle loro ambizioni sbagliate. Questa “ile flottante”, quest’isola galleggiante non è insomma solo il dolce più banalmente esotico della cucina francese ma un mondo che va alla deriva.

    Alla fine, gli attori cominciano a svuotare la scena. Tirano giù i quadri. Portano via le sedie. Infilano gli oggetti dentro gli scatoloni di cartone. Quando nulla è restato, se ne vanno uno alla volta, dopo un ultimo sguardo a quella che era stata la loro casa, mentre risuona l’Ave Maria di Schubert e una rimasta lì, incapace di allontanarsi, ripete incantata “io… casa… io… casa”. In attesa che un camion giallo porti via tutto. E in quel momento è quasi inevitabile la commozione, dannato Marthaler. Perché li conosciamo quei personaggi di cui abbiamo riso, dietro la maschera farsesca ci sono più vicini di quanto si voglia ammettere. E quel grande addio stringe il cuore.

    © gianni manzella

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