Brecht, antibrecht? La questione poteva ancora appassionare una quarantina d’anni fa, quando Strehler metteva in scena una affollata Santa Giovanna dei macelli, oscillante fra toni grotteschi e patetici, sul palcoscenico del Piccolo teatro. La polemica culturale trovava alimento anche nella tradizione interpretativa che pesava sullo scrittore di drammi, un vero e proprio canone. E pesava anche una gestione dei diritti di rappresentazione che sembrava non lasciare spazio a una non canonica (appunto) interpretazione del teatro brechtiano. Non è un caso che Luca Ronconi avesse immaginato allora una messinscena “contro” il brechtismo, senza poter poi portare avanti il progetto (qualcuno si oppose, dice oggi il regista con elegante nonchalance).
Oggi Ronconi arriva a Brecht, proprio su quel palcoscenico che è stato geloso custode della precettistica brechtiana, in un clima culturale assai mutato. Molte barricate sono cadute ed è venuta meno un’interpretazione univoca dell’opera dello “scrittore di drammi”, basta pensare agli spettacoli di Robert Wilson al Berliner Ensemble, altro tempio dell’ortodossia brechtiana. Oggi Brecht è decisamente “un classico”, con l’effetto intimidatorio che lui stesso attribuiva ai classici ma anche con la libertà interpretativa che gli è concessa, se non ci si limita a una concezione esteriore della classicità.
Non stupisce insomma che il re della carne Mauler si presenti in scena volando per l’aria, seduto su un’ipertrofica scatoletta di carne portata da un dolly cinematografico. E Brecht praticava l’ironia a sufficienza per divertirsi dei barattoloni semoventi in cui sono infilati i magnati della carne che combattono con Mauler sul mercato di Chicago – in una identificazione totale della loro persona con il prodotto che mettono sul mercato.
Il problema è l’attualità. Cioè come evitare la trasposizione meccanica in termini contemporanei dei temi di Santa Giovanna dei macelli. Perché naturalmente Santa Giovanna dei macelli è attualissima. Il dramma fu scritto da Brecht fra il 1929 e il ’30, a ridosso della grande crisi economica partita con il crollo della Borsa di New York. Fin troppo facile vedere un parallelo con il momento presente, quando si ascoltano battute che sembrano tratte dalla pubblicistica degli ultimi anni e invece sono proprio le parole di Brecht, nella traduzione di Ruth Leiser e Franco Fortini.
È però questo anche l’elemento di minore interesse, tanto alla fine appare scontato. Assai più interessante è il gioco fra i due protagonisti che lo spettacolo mette in campo, portando allo scoperto l’ambigua complementarietà che li lega, quel loro reciproco cercarsi in vista di una sintesi che potrà prodursi solo alla fine con il martirio di Giovanna.
Citizen Mauler si muove con spregiudicatezza e fortuna sul mercato delle carni di Chicago, facendo il vuoto intorno a sé, come a ribadire che quello in cui si muove è un mondo che non ama. E tuttavia non sopporta il sangue degli animali uccisi, sviene alla vista dei poveri che hanno invaso la Borsa bestiame. Compra e vende azioni su basi emozionali che ogni volta però finiscono per anticipare le mosse del mercato. È insomma, la sua, una personalità isterica (disturbo tipicamente femminile, si pensava ancora all’epoca di Freud) sempre sull’orlo di una crisi emotiva – e qui è bravissimo Paolo Pierobon a rendere visibile fisicamente questa impronta quasi patologica, con quei modi aspri che a ogni momento possono trascolorare nel sentimentalismo. E infatti le musiche scelte da Paolo Terni la buttano su melodramma, con larghe citazioni di arie verdiane, ignorando le musiche prescritte di Paul Dessau.
Giovanna Dark, la pulzella dei macelli di Chicago, ha un caschetto di capelli rossicci che l’avvicina alla Falconetti del film di Dreyer ma assai poco di eroico, al di là di una estatica vocazione predicatoria che fa breccia nel suo antagonista. Anzi, l’aria dimessa e quotidiana di cui è capace Maria Paiato, coniugata con un inguaribile e anche un po’ cinico ottimismo della volontà, svelano una dimensione piccolo-borghese che non caso vede la realtà mediata dalle immagine televisive o cinematografiche. Non c’è solo quel dolly sulla scena ma anche archeologici apparecchi di proiezione, televisori in scatola, schermi su cui si moltiplica l’immagine dell’uomo massa.
Su questo nodo Ronconi ha imbastito la regia dello spettacolo, tagliando con decisione il testo nelle parti più corali e chiarificando l’azione intorno a pochi personaggi chiave (il portaborsa pronto a tutto di Fausto Russo Alesi, l’operaio massa di Gianluigi Fogacci, la proletaria disperatamente alcolizzata di Francesca Ciocchetti…). Messo prevedibilmente da parte lo strumentario di siparietti e cartelli, straniamenti e cabaret, ciò che resta è uno sguardo ironico ma non consolatorio. Per arrivare a quella conclusione, che se due sono le anime, l’anima pura e quella impura, bisogna tenersele entrambe. Cioè non volerne scegliere una ma restare in lotta con se stessi.
© Gianni Manzella