Come già sapeva la tragedia greca, come molti secoli dopo di nuovo intuirà Walter Benjamin, non esiste un sapere per il mistero. L’oggetto deve essere consegnato dentro il velo che lo copre. Lì sta la sua bellezza. E lì sembra operare il Teatro della Valdoca. Ogni volta, davanti al lavoro del gruppo di Cesena, si ripropone per lo spettatore la necessità di confrontarsi con un segreto, di affrontare un enigma che non chiede di essere sciolto. L’allusione a una verità conoscibile da pochi, a una soglia da superare che si manifesta a volte in termini iniziatici.
Fin dagli inizi, nei primi anni Ottanta, il Teatro della Valdoca si è imposto per una personalissima poetica che teneva in equilibrio immagini di rarefatta bellezza con una sotterranea ricerca di comunicazione, resa concreta dal contatto con le cose, con la materia degli oggetti che popolano la scena. Partiti da un visibile interesse per le arti visive, Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri (lui regista scontroso e scostante, lei attrice e poi soprattutto autrice, con un velo di dolcezza in più) hanno portato avanti il loro lavoro scenico con poche concessioni alle mode del momento o alla ricerca del consenso. Piuttosto con una lenta deriva che ha fatto scivolare i loro spettacoli da un universo di quiete, di naturali silenzi riempiti da gesti minimali come i semplici oggetti maneggiati, a un sempre più intenso sentimento del dolore, quasi che nello spazio e nel tempo di uno spettacolo dovesse concentrarsi tutto lo strazio del mondo.
Erano, agli inizi, i fragili equilibri che reggevano il gioco delle due interpreti dello Spazio della quiete o delle Radici dell’amore, alle prese con lunghissime pertiche da far oscillare lente, da bilanciare col corpo. I rametti che in appoggio sul corpo ne amplificavano le vibrazioni. Le canne sospese a fili e fatte altalenare in sincronismo col dondolare a terra di chi ne tiene il capo, o fatte sibilare con movimenti rapidi, saggiandone le capacità sonore, mentre altre sonorità di piccole pietre battute l’una contro l’altra, di acqua in un recipiente, gareggiavano con accenni di un dialogo incomprensibile. O i pochi oggetti disseminati sul piano della scena immersa in una luce chiara in Atlante dei misteri dolorosi. Alcuni mattoni forati, ciotole di terracotta, un tavolino di legno, un mucchio di lana. Punti visibili nel vuoto dello spazio, dotati di una forza di attrazione verso gli interpreti che sembrano appiattirsi su quegli oggetti, giovani donne in abiti di tutti i giorni, un ragazzo che porta dei rami appesi al corpo e va dall’una all’altra come un messaggero di muti ordini o un nunzio di lontani eventi.
In questi paesaggi di immagini e suoni e gesti minimali, a prendere spessore comunicativo è proprio il corpo delle attrici, che a tratti si cercano, si avvicinano, arrivano a stringersi. Corpi agiti sempre con grande rigore, con precisa misura, mai però astratti, mai neutrali. Carichi anzi di una sensualità esplicita anche se non provocatoriamente esibita. Vanno in equilibrio sull’asse, quando si incontrano si toccano, si parlano attraverso strani imbuti modellati nell’argilla che deformano e allontanano le voci. Parole che non raccontano, semplicemente ci sono, come gli oggetti e i corpi degli attori. Discorsi fatti al buio per spezzare il silenzio della notte. Come un parlare a se stessi, malato di ricordi, un ripercorrere dentro la memoria eventi tragici sottratti alla storia per ricondurli a più personali esperienze.
Quello della Valdoca è infatti, da sempre, un universo profondamente femminile. Il femminile come esperienza esclusiva. Come segreto, appunto. Una risata nascosta dietro un sospiro. I confini incerti di gioia e dolore della maternità. Lo “spirito della terra” di cui il mondo naturale adombrato nei loro spettacoli rappresenta la traduzione scenica. Con una carica di erotismo tanto più forte quanto più si esprime per gesti minimi: uno sfiorarsi il corpo, un insistito accarezzarsi, un rapido contatto di un viso contro un ventre. Gesti negati a uno sguardo esterno.
Questo segreto femminile, di per sé indicibile, trova un nome in Antenata, viaggio verso una memoria biologica del passato, verso un grembo materno espresso già dal titolo del triennale progetto. Sono le “madri”, termine di derivazione goethiana dilatato fino a racchiudere ogni esperienza trascendente. Sono il passato che arriva fino a noi come codice biologico. Presenza oscura che si infila leggermente nei corpi. Tormento desiderato, com’è tutto ciò che parla della memoria.
Agli inizi del nuovo decennio l’esigenza di saldare i conti con il proprio passato, allusa già nel titolo del precedente Riassunto del paradiso, si è fatta esplicita. La volontà di confrontarsi con il proprio linguaggio sembra del resto indicata anche dalla preparazione dello spazio scenico, un riquadro nudo delimitato da una serie di carrelli metallici dove stanno riposti in bell’ordine una serie di oggetti che rimandano direttamente al passato (recente, certo) del gruppo. Fasci di canne, funi tese, panni ripiegati, strumenti di lavoro manuale, reperti di viaggi africani. Oggetti “trovati”, accumulati quasi in maniera catalogatoria e lasciati lì, privi di un concreto valore d’uso, come pura testimonianza di un processo creativo che non ammette cesure.
Ma già alla seconda tappa del percorso, risulta immediatamente percepibile la scelta di un diverso codice espressivo. Quanto il primo atto era oscuro notturno geometrico, pervaso da una forte carica di erotismo, tanto il secondo atto risulta esposto alla luce, nitidissimo all’apparenza. Un biancore implacabile si riflette dalle pareti della sala, su cui incombono appese tre canne di metallo, replicanti industriali di quegli oggetti naturali che agli inizi facevano l’universo figurativo della Valdoca. E tocca allora alle parole di Mariangela Gualtieri riempire l’esplodere di forze primitive con un senso più intimo di dolore, recuperando il dialetto romagnolo dentro un reticolo di frasi spezzate, di balbettamenti, di toni visionari e quotidiani. C’è in vista anche un cambiamento della modalità produttiva, con l’allargamento dell’ensemble a un gruppo numeroso di interpreti, quasi una trentina, raccolti dal regista attraverso una serie di seminari. Corpi su cui viene modellato lo spettacolo.
È una festa, Ossicine. Una festa dei corpi, esposti alla luce abbagliante di una moltitudine di lampade a gas distese a terra o usate dagli interpreti per autoilluminarsi. Braccia nude, gambe dipinte, mani e piedi, capelli che si tirano su l’un l’altro a far corona al viso, con gesto simmetrico a quello delle corde che talora vengono agganciate agli abiti per tenderne i lembi. A turno quel coro variopinto genera effimeri protagonisti che si pongono alla testa di piccoli drappelli o vanno a sedersi sul trono metallico, a forma di grande animale acefalo, che costituisce l’unico arredo della scena.
E che spettacolo abbacinante l’ingresso nel grande capannone industriale dove va in scena Fuoco centrale. Il bianco involucro geometrico è invaso di luci. Candelieri accesi di tutte le forme. Abbaglianti strutture di fari rotondi. Torce a gas posate a terra, da usare a mano per illuminarsi. Bracieri metallici che hanno la forma di mitologici animali acefali. E panni rossi appesi a funi e mucchi di lana stesi a terra che danno allo spazio il calore mediterraneo di un accampamento nomade, dove una tribù celebra una sua festa rituale. Gli attori e i musicisti stanno seduti in circolo, sul fondo della sala, nel cerchio disegnato da sottili canne fissate agli sgabelli, davanti a un arazzo argenteo su cui campeggia l’arancio di un irregolare sole; con il canto e la musica ritmano la danza di quello fra loro che a turno va a occupare il centro del cerchio magico.
Senza imbarazzi portano i fantasiosi costumi che mimano un fiabesco esotismo. Dominano colori primari. Il bianco e il rosso delle lunghe gonne portate anche dagli uomini. Il nero delle tuniche che si alternano ai leggeri vestiti a fiori, lasciando libere le braccia coperte di scritte misteriose, mentre volti e mani recano spesso le tracce di un colore pittorico. Tutti diversi, in questa disinibita coralità, anche se soltanto a pochi di loro è concesso di spingersi alla soglia di un personaggio.
Dal coro si staccano uno per volta gli interpreti, per farsi provvisori protagonisti. Attraversano di corsa la sala per venire in primo piano a dire i poetici testi di Mariangela Gualtieri che parlano di giorni che non esistono e di mondi mancanti, di piccoli dolori e briciole di sentimenti. Ma sono parole difficili da dire. Sempre un poco impedite. Articolate con dolorosa difficoltà dal ragazzone capace invece di esprimere una fisica agilità in capriole e piroette. Strozzate nella gola di una ragazza presa per il collo, rese affannose dallo sforzo di un’altra fatta oscillare per le mani e per i piedi, distorte dalle mani che tirano la bocca. Oppure sono lingue inventate, o forse sognate. Lingue che hanno perso tutte le vocali maschili o che fanno immaginare mari lontani.
Nella cerimonia si alternano processioni e pause di silenzio in cui questo popolo del deserto sembra mettersi in ascolto, delicate gag e la cottura degli spiedini per un pasto da consumare insieme ancora in circolo. Ma poi è di nuovo la danza a trascinare gli interpreti, sull’onda delle contaminate musiche etniche. Una danza imperfetta, che non teme di rischiare gesti di tenera comicità. Con gli alti e i bassi, i pieni e i vuoti di ogni esperienza vitale, sintesi di un momento di felicità creativa dei due artefici della Valdoca e dell’intero ensemble.
Potrebbe essere l’inizio di temperato manierismo. Ma a quella festosa felicità espressiva, il regista della Valdoca preferisce un nuovo scantonamento. Il rischio di vivere al presente. Di quegli spettacoli restano le sbavature rosse che macchiano i visi, nel successivo Nei leoni e nei lupi. Restano gli sfinimenti delle corse e degli scontri che soffocano le parole. Restano alcuni degli interpreti, in un gruppo tornato a una dimensione più ristretta.
C’è un evidente richiamo alla teatralità dichiarata, anche la teatralità più povera qual è l’avanspettacolo. Con le sue volute sguaiataggini, le innocue esibizioni sessuali, le oscenità riportate a forza dentro la scena. Come quel bastone da passeggio che passa di mano in mano e finisce sempre lì, eretto in mezzo alle gambe delle attrici. O l’improvviso delirio erotico che le piglia, e allora è tutto un accoppiarsi a due o tre, un cercar corpi su cui strofinarsi, un saltar addosso persino ai tecnici delle luci. Si ride, assistendo a Nei leoni e nei lupi. A volte con un poco di imbarazzo. Con il disagio che nasce dalla mancanza di rassicuranti certezze. La violenza delle lotte che a tratti si scatenano fra le interpreti lascia lividi visibili ma spesso si tramuta in una strana tenerezza. Come la musica di Pergolesi che irrompe più volte ad addolcire una nota di dolore. Quella che risuonava in più lontani spettacoli della Valdoca.
E ancor più sensibile è lo stacco voluto nell’ultimo Parsifal piccolo. Dalla musica che invadeva lo spazio a un canto vocale che ha la rarefazione di un mantra. Dal ballo sfrenato a una danza dai richiami orientali, spesso fatta solo dalle braccia e dalle mani. Dalle sbavature di colore che macchiavano i visi e i corpi degli interpreti a segni composti come maschere rituali, attorno al protagonista che si aggira muto per la scena da cui non può scappare, toccato dalla grazia di essere un “puro folle”. Un bambino autistico. Incapace di parlare se non per bocca d’altri. Un Kaspar Hauser che deve ancora imparare le parole per dire le cose.
Quel che resta come un nocciolo duro nel teatro della Valdoca, sono i testi scarni e poetici di Mariangela Gualtieri. Quel suo lessico familiare che ha la concretezza e la verità delle cose sofferte. È proprio in quel mutismo del piccolo Parsifal il centro di una scrittura che ha struttura frammentaria, è costruita sui diversi personaggi e non su una trama, lasciando così che sia la messinscena a ricomporla. È l’affezione per quell’ebetudine quasi animale, per ciò che sta prima del pensiero, che prende corpo nella figura di Parsifal. Pensiero e parola appartengono agli altri, a tutti gli altri, che nel vuoto di lui si affacciano come su un lago che rimanda una tremula immagine di noi. È l’intelligenza sofferente di re Anfortas, la sua ferita che non rimargina. Re di una terra che proprio quella sofferenza ha reso desolata, dove più niente nasce e cresce. E che solo il non sapere di Parsifal potrà guarire.
Per farlo bisogna riacchiappare le parole che si sono staccate dalle cose. Tornare alle radici della propria lingua. Non è un caso che il testo scivoli nella lingua romagnola, con la durezza dell’imprecazione e del lamento, nei due passaggi più emozionanti dello spettacolo. È quello il Graal da conquistare, la meta verso cui cammina l’eroe ma che è stata sempre lì, come la pietra posta al centro della scena.
© Gianni Manzella