Il paradosso sull’attore che muove da Amleto. Ci si era arrestati davanti a questa soglia, qualche tempo fa, scrivendo della Morte di Danton di Lenz Rifrazioni alla reggia di Colorno, residenza ducale trasformata in manicomio e divenuta poi uno dei simboli dell’istituzione negata nelle battaglie condotte da Franco Basaglia. Cosa sono per noi quei personaggi che si agitano per passioni che ci sono estranee. E vien da ripensarci, oggi che l’ormai decennale percorso artistico che ha condotto Lenz a incontrare un gruppo di anziani ex degenti psichici di Colorno giunge alla prova della “follia” di Hamlet. Quasi inevitabilmente, per necessità prima che per destino. Siamo alla quindicesima edizione del festival Natura Dèi Teatri, intitolata al tema concettuale della “cute” come visione dell’esteriorità del corpo nelle pratiche artistiche contemporanee.
Francesco Pititto ha elaborato una riscrittura poetica del dramma di Shakespeare – possiamo leggerne le parole nella pubblicazione che accompagna la messinscena, raffinatissima com’è consuetudine dell’ensemble di Parma. Con Federica Maestri, l’hanno tagliata in una serie di scene che trascinano gli spettatori per le stanze un tempo fastose della rocca dei Rossi, malandato maniero cinquecentesco annegato nelle nebbie autunnali della bassa pianura padana. Come un’azione parallela, passano sulle pareti o su monitor immagini che dilatano l’azione recuperando la memoria delle prove del lavoro, come a dire altri momenti di vita. A distanziare ulteriormente un’immedesimazione resa già problematica dalla negazione dei ruoli. Ci saranno tre interpreti di Amleto, spesso contemporaneamente in scena, e due diverse Ofelie, mentre la regina Gertrude avrà un pesante corpo maschile sotto il velo nero. In realtà non di interpreti si deve parlare, di attori appunto si tratta (trasduttori di forza, li chiamano gli artefici, con qualche loro ragione). Convocati a condurre gli spettatori dietro di sé.
Ma ecco che quelle belle parole non ci sono più. Scompaiono dalla memoria degli attori, impossibili da recitare. Perché qui è questione di vita e non di recitare. Di essere e non di fingere, o di essere anche nella finzione dei costumi che denotano una sensibilità, piuttosto che un’epoca. Quel che ritroviamo è invece è un’Ofelia che evoca con una sorta di ironica ma anche dolorosa leggerezza una bellezza forse posseduta in gioventù, cercando di risvegliare l’attenzione di un Laerte perso in un mondo di silenzioso stupore – pazienza, ripete lei con sorniona civetteria, pazienza. O un’altra che distesa in posa da odalisca mescola le favole e finisce dentro le vicende di Biancaneve. Un re Claudio che prega con le preghiere imparate nell’infanzia.
È qui che si compie il miracolo o la trasformazione alchemica, scegliete voi. È come se sul palinsesto di quel primo testo, se ne stendesse un altro, davvero un Ur-Hamlet (così si intitolava la folgorante creazione che prendeva spunto dalla scrittura in lingua siciliana di Franco Scaldati, una decina d’anni fa, una delle grandi invenzioni sprecate del nostro teatro). Un testo fatto di silenzi, di gesti improvvisi e improvvisati, di parole che nascono solo nel momento in cui vengono dette. Che non cancella l’altro ma ci interroga su cosa esso significhi per noi. E qui si gioca anche la maestria dei due artefici che nulla fanno per imporre una coercitiva adesione alla propria scrittura scenica ma la curvano per incontrare quei corpi; qui è anche l’assoluta distanza da tante volenterose esperienze di lavoro teatrale con persone “disabili”, incapaci di sfuggire alla norma della recitazione.