Si inizia con una lezione sulla forma degli ideogrammi cinesi, sul loro prendere forma sotto il tocco del pennello, in un gesto pittorico che ne svela anche il significato nascosto: come quel semplice tronco tracciato dall’alto verso il basso che deve mettere radici per diventare albero e quando il segno si moltiplica si trasforma in foresta. E si arriva a una lezione sul tatuaggio, altra pittorica arte della scrittura che però si imprime sui corpi, come un’arte del dolore. È un contorto drago blu quello che ha tatuato su una spalla il protagonista della pièce ma che campeggia anche come emblema di una forza che può essere benigna o devastatrice, a seconda dell’orizzonte da cui la si guarda.
Le Dragon bleu è l’ideale quarta parte di quella Trilogie des Dragons che verso la fine degli anni Ottanta aveva rivelato il talento creativo del multiforme autore e regista québécois, all’epoca poco più che trentenne. Una grande saga che in sei ore di spettacolo attraversava più di mezzo secolo di storia, scavando sotto la superficie del presente per ritrovare, a partire da un luogo, una folla di personaggi e un intreccio di storie. E un’idea di comunità che il teatro di quegli anni ricercava anche attraverso la durata, nella lunga condivisione di uno spazio che portava i partecipanti a riconoscersi e trasformava gli spettacoli in un corale rituale, dall’Orestea di Peter Stein al Mahabharata di Brook.
A distanza di tempo, Lepage riprende il filo di una di quelle vicende e il suo protagonista, il giovane artista Pierre Lamontagne che era andato a studiare a Shangai e vent’anni dopo ritroviamo ancora lì, più prosaicamente trasformato in gallerista d’arte. Dunque invertendo il senso di marcia dell’emigrazione, per lasciare comunque in primo piano uno spaesamento. Là, nella “trilogia dei draghi”, le tante storie messe in campo da Lepage incrociavano il mondo misterioso e enigmatico delle Chinatown cresciute in Canada, qui la prospettiva si è invertita. L’aereo di cui vediamo per un momento la cabina, prima dei titoli di testa, viaggia verso la Cina.
Gli anni sono passati. Il grande paese-continente asiatico è un po’ meno sconosciuto ma forse ancora più ambiguo nella miscela di capitalismo speculativo e di controllo politico repressivo, nell’incrocio delle due diverse tradizioni su cui si radica il suo immaginario attuale, un impero millenario e mezzo secolo di comunismo. L’acrobatica danza di una donna soldato da Distaccamento femminile rosso d’epoca maoista strizza l’occhio all’Opera di Pechino. Ed ecco sullo schermo apparire un manipolo di cavalieri lanciati all’attacco di una roccaforte e pronti a volare per aria come abbiamo visto in tanti film ma si scopre dopo un momento che è una pubblicità di fast food, al volto del vecchio guerriero a cavallo si sovrappone quello del colonnello Sanders nel celebre marchio del KFC, il Kentucky Fried Chicken evidentemente sbarcato anche il Cina.
Anche il numero dei personaggi si è ridotto, di pari passo al concentrarsi della vicenda intorno a un unico nucleo tematico, che potremmo in maniera un po’ riduttiva definire il problema della paternità. Accanto all’invecchiato protagonista si stagliano speculari due figure femminili, la coetanea canadese che è stata sua moglie per caso e per poco (è Marie Michaud, coautrice dello spettacolo), la giovane cinese che è la sua amante attuale; l’una affermata nel mondo della pubblicità, l’altra in cerca di affermazione come artista d’avanguardia che ha scelto come mezzo espressivo la fotografia e come soggetto unico il suo volto catturato in diversi stati emotivi. E se la prima viaggia alla ricerca di una bambino da adottare, la seconda si scopre incinta con quel che comporta in un paese che vuol limitare con tutti i mezzi le nascite. E se poi si scopre che il nuovo nato non è neppure del tutto cinese…
Ma più che per l’aspetto soap della trama, con il suo tessuto sentimentale che gioca coi conflitti dentro un lessico quotidiano fatto di brevi dialoghi, si resta intrappolati piuttosto dal fluire delle immagini l’una dall’altra, dalla capacità di invenzione che si rivela in un mescolarsi di tecniche gestuali e linguaggi, quel che rende unico e riconoscibile il teatro di Lepage. Un lungo trenino illuminato che attraversa la notte della scena, le biciclette che si stagliano in un falso movimento contro una lontana skyline di grattacieli… Ciò che qui colpisce è semmai l’assoluta, ricercata bidimensionalità dell’immagine, evidente già nella scelta di inquadrare la scena all’interno di una parete nera che chiude il palcoscenico del teatro. Scelta non innocente, quella di negare ogni profondità all’azione, spingendola verso una dimensione filmica o televisiva, dove però quelle due dimensioni vengono spezzate e ricomposte in un continuo moto combinatorio. I due piani sovrapposti in cui è divisa la scena disegnano lo spaccato di una casa instabile, illuminata dai bagliori di frequenti temporali che scoppiano violenti nei momenti critici. Cioè uno spazio in continua metamorfosi, capace di trasformarsi senza soluzione di continuità in stazione ferroviaria o hall di aeroporto, di suddividersi nelle stanze di un polittico e di farsi schermo gigante dove si proietta la vista aerea del delta di un fiume, per raccontare dei suoi tre rami a cui leggenda vuole che venissero affidati i bambini non voluti perché fosse la sorte a deciderne il futuro, vita o morte.
E si torna così a quel tema che si diceva, a quella maternità cercata o rifiutata sempre fuori tempo massimo, a quella sterilità dei sentimenti che diventa anche incapacità di procreare, come ci dice il racconto del panda trattato a viagra per curare la mancanza di desiderio erotico che sta conducendo all’estinzione della specie. Che ci siano di mezzo anche oriente e occidente, un mondo antichissimo che si scopre giovane e un nuovo mondo che non cresce più, è facile pensarlo. Ma è metafora tentatrice troppo forte per non invitare a qualche cautela lo spettatore, chiamato a spostarsi fra più piani interpretativi. I tre draghi della trilogia tinteggiavano altrettante stagioni della vita, questo che si colora di blu indica piuttosto un mood, uno stato d’animo che è anche tensione verso altro, desiderio inappagato, apertura al cambiamento.
Il triplice finale offerto allo spettatore dall’artefice lascia l’opera apertissima. Un anno dopo, i tre protagonisti si incontrano all’aeroporto per un saluto a chi parte. Ma appunto, chi parte? E a chi resta quel bambino portato lui pure all’aeroporto in un passeggino? Non è forse un caso se nel gioco combinatorio delle possibilità, replicate una di seguito all’altra senza cambiare una parola, resta per ultima quella in cui le due donne prendono il volo insieme lasciando a terra uomo e bambino. Come se quelle più prevedibili fossero ormai consumate e sia tempo di provare a pensare soluzioni nuove.