Che si possa partire dall’immagine della Mir, la stazione spaziale sovietica che per più di dieci anni ha orbitato intorno alla terra, e farne una metafora dell’amore, è cosa che finisce per sembrare persino ovvia quando te la racconta Constanza Macras, con gli occhi che brillano mobili e la mimica molto latina. Si inizia con lo spirito eroico della conquista, dice la giovane artista – ma il vero eroismo è resistere, sopravvivere, restare lì. E quando l’amore finisce, resta anche una sorta di nostalgia non diversa da quella che ha accompagnato, a est, la scomparsa dell’Unione delle repubbliche sovietiche. Restano soprattutto i detriti dell’amore, le piccole cose senza valore accumulate durante l’amorosa convivenza. Un oggetto, un biglietto, una canzone. “La memoria è fragile, la spazzatura invece rimane sempre”, è la conclusione, assunta a motto della sua compagnia. Spazzatura che gira nello spazio da trentacinque anni.
Lo spettacolo si intitola Back to the present ed è il biglietto da visita con cui Macras si presenta sulla scena internazionale, nel 2003. Argentina di nascita, trentenne, Constanza Macras ha girato il mondo prima di approdare a Berlino, dove ha fondato la propria compagnia Dorky Park. Negli anni di formazione ci sono la moda e la danza classica (che faceva così “vecchia Russia”, dice). A sedici anni ha già un piccolo gruppo con cui realizza dei fashion show. Adora la moda, ma poi deve scegliere e il suo sogno è allora entrare nel mondo della danza. A ventidue anni lascia l’Argentina e se ne va ad Amsterdam. All’inizio è molto duro, è sola e non conosce nessuno. Fa la sua prima audizione al Nederland Danse Theater. Passa molto tempo cercando di imparare, semplicemente guardando dei video di danza contemporanea nelle biblioteche specializzate della città.
Da Amsterdam a Berlino. Passando per New York. Per quattro anni Macras va avanti e indietro fra Europa e America. Quando arriva per la prima volta a Berlino, pensa di aver trovato il posto dove vivere. È il 1994, le differenze fra est e ovest sono ancora molto visibili. Ma è un luogo molto vivo, dove tutto stava cambiando. Si mette a cercare un lavoro che non trova. Dopo la caduta del muro, molti dei finanziamenti destinati alla cultura sono stati ridotti. A New York fa la cameriera per guadagnare dei soldi, poi torna a Berlino a montare uno spettacolo con i suoi compagni. Ma per anni non ricevono sovvenzioni pubbliche. E in Back to the present si prende un po’ in giro questa situazione.
La prima versione dello spettacolo va in scena all’interno di un grande magazzino abbandonato nel cuore della città e dura circa quattro ore, quella “da teatro” rimasta tuttora in repertorio dura solo due ore e mezza, ma quanto mai gonfie di materiali eterogenei. Lo spettacolo appare in effetti dominato dall’esuberanza creativa di chi ha voglia di dire tutto e subito, miscelando danza e video e musica suonata dal vivo, ma anche una curata drammaturgia verbale, dentro un universo visivo prettamente televisivo.
Si comincia con un assolo sinuoso di una ragazza vestita di rosso che sembrerebbe indirizzare il lavoro verso un tono di sensuale gradevolezza, ma subito il meccanismo della danza viene spezzato, sulla scena irrompono gli altri interpreti al ritmo ormai disneyano dell’Apprenti sorcier di Dukas, entrando e uscendo dalla fila di porte che si allineano su un praticabile sul fondo dello spazio scenico. Altre due porte più grandi vengono spinte di tanto in tanto in tanto in mezzo alla scena, dove si accumuleranno via via una miriade di oggetti e anche un intero salottino. Ma a scandire il tempo dello spettacolo sono gli inserti filmati che vengono proiettati su uno schermo posto al centro, come un provvisorio sipario, accompagnati da un’ossessionante versione latina della Yesterday di Lennon/McCartney. Ne sono protagonisti gli stessi danzatori, trasformati in personaggi e seguiti in nevrotici comportamenti quotidiani che poi si prolungano direttamente sulla scena, dove vengono a turno a confessarsi come interpreti di un reality show televisivo, parodia della vita che appare quasi come una sorta di nuova malattia spirituale, l’ossessione di stare sempre sotto l’occhio di una telecamera. Ecco la ragazza abbandonata che vuole buttarsi e ammazza invece l’uomo che vorrebbe impedirglielo. L’altra su cui tutti si accaniscono. Il ragazzo che continua a far danni girando con una bicicletta scassata. Altre immagini vengono diritte dal repertorio cinematografico, come la ragazza che scappa discinta da un invisibile pericolo – e la vedremo poi inseguita da un divano in una scena di strepitoso divertimento.
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Se Back to the present è un voltarsi indietro agli anni della giovinezza, con la consapevolezza che non si può poi che “ritornare al presente”, lasciando come viatico una distesa di orsacchiotti di peluche, il successivo Scratch Neukölln vive dell’ambiguità nascosta nel titolo, fra desiderio di azzeramento e abbandono al gesto del dj, mescolando sogni infantili e denunce di discriminazione nella street dance dei ragazzini figli di immigrati portati sulla scena. Scratch Neukölln porta in scena infatti, insieme agli interpreti della compagnia Dorky Park, un gruppo di bambini che hanno nomi come Hassan e Ahmad e Fatma.
Neukölln è un popolare quartiere di Berlino, l’approdo di molti immigrati. Qui la scena allude forse a un parco pubblico o a un cortile. C’è un muretto coperto di manifesti strappati e sovrapposti. Una vasca piena d’acqua dove tuffarsi e fare il bagno con il materassino. Una panchina per sedersi. Il bidone dei rifiuti dove finiranno, o saranno ripescati, gli oggetti usati durante lo spettacolo. Un pianoforte sul fondo, perché l’accompagnamento musicale spesso se lo fanno da soli, imbracciando le chitarre o picchiando dei boccioni di plastica. I grandi hanno vestiti di stoffe a disegni mimetici, tranne uno che forse fa l’animatore in un fast food, in tuta bianca e corona di carta in testa. Parlano della propria religione, sono tutte diverse. Declamano slogan pubblicitari, conclusi da un amletico “il resto è silenzio”. Da uno scatolone di cartone spuntano due gambe e una voce dice: voglio uscire. Una ragazza si esercita nelle arti marziali. Cantano Save me e consumano cibi industriali. Sul fondale si proiettano immagini di strada o una fiction che ha per interpreti due di loro. E poi danzano, trascinati dai bambini nelle evoluzioni a terra della street dance.
Scratch Neukölln vive la stessa ambiguità che nasconde nel titolo, fra desiderio di azzeramento e abbandono al gesto del dj. Mescola sogni infantili e denunce di discriminazione all’interno di una grammatica scenica di assoluta semplicità, dove a vincere sono soprattutto l’energia e l’immediatezza dei ragazzini.
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Immagina la distruzione della razza umana. Immagina che gli operai sotterranei di Disneyland siano gli unici sopravvissuti e saltino fuori dagli alberi per portar via i rifiuti e stiano lì da soli, in costume, pronti a ripopolare il mondo. Si potrebbe usare questa sola immagine di un’apocalisse delirante e derisoria per riassumere Big in Bombay.
Lo spazio scenico è come d’abitudine pensato in grande per dar innesco alle connessioni del lavoro. C’è una grande stanza dalle pareti vetrate in mezzo al palcoscenico, una sala d’attesa con le poltroncine di plastica gialla allineate lungo i lati e una scala sul retro che ne rende praticabile anche la terrazza superiore. Un non-luogo, abitato e attraversato a folate dalla numerosa tribù degli interpreti, sono una quindicina, di formazione diversa e però tutti fanno di tutto, senza rigide distinzioni di ruolo, i danzatori cantano e i musicisti danzano. Ti aspetteresti una musica d’ambiente, alla Brian Eno, e invece le note che si ascoltano hanno indubbiamente l’odore dell’India. E i corali movimenti coreografici in cui si buttano citano spudoratamente il cinema di Bollywood, con quelle braccia che oscillano sinuose e gli occhi che ruotano e gli ancheggiamenti avanti e indietro che non nascondono l’esplicito contenuto sessuale.
Come denuncia il titolo, l’idea di Big in Bombay è nata durante un soggiorno della compagnia in India, mentre erano impegnati a risolvere altrimenti il finale troppo nudo di Back to the present e i maltrattamenti a una grossa vacca di gommapiuma politicamente non corretti in quel contesto. E infatti i brani filmati che spesso spezzano l’azione, proiettati sul telo di fondale o su una tenda tirata sulla facciata della stanza vetrata, alternano azioni e immagini di strada della metropoli indiana. Ma con un ulteriore ribaltamento Macras traveste quell’universo già contaminato con gli abiti pop di una cultura visiva occidentale, in un frullato di cartoon e soap opera e disco music latina e b movies e tv generalista, dove anche le canzoni assumono un evidente peso drammaturgico, In my own cantata e danzata in coro può diventare profonda come un mantra e Ne me quitte pas acquista durezza nella versione tedesca di Marlene Dietrich.
Ecco allora un po’ alla rifusa un ragazzo senza braccia e un coreografo urlante contro la coppia che non fa il passo giusto. Provini per un film di indiani (quelli d’America però) che si trasforma in un horror. Rapine a mano armata alla Quentin Tarantino. Scene di sesso acrobatico. Donne col velo e school girls in minigonna inguinale con carrozzine di neonati e carrelli della spesa che sfilano in processione sulle note di El condor pasa. Maschere disneyane e passamontagna calati sul volto. Violenze di gruppo e lotte corpo a corpo di due che si parlano in arabo e in ebraico. D’un tratto un enorme ventilatore che ha la forza impulsiva di uno tsunami li butta a terra, li lascia tutti stesi. Uno si alza, servo di scena col volto celato dalla maglietta, e comincia ad ammucchiare i corpi senza vita degli attori, l’uno a fianco dell’altro, come il Living di Julian Beck in una delle immagini cardinali della storia teatrale del secondo novecento. Come abbiamo visto fare in tanti reportage recenti. E tutto allora si lega.
Constanza Macras mette in danza la globalizzazione dell’immaginario. Non per gusto postmoderno, malgrado l’innato eclettismo o la voracità con cui addenta ogni immagine. Ma perché così va il mondo, lo dice già la sua biografia di argentina fuggita ad Amsterdam e New York per studiare danza e ora stabilita a Berlino. Quel suo modo di parlare velocissimo che passa senza accorgersene dall’inglese allo spagnolo e al francese. E con l’aria di divertirsi moltissimo, e di divertirci non meno, è fra i pochi artisti in grado di sbatterci in faccia una sintetica storia sociale e politica della cultura argentina, da Peron a Menem. E quella paura ossessiva espressa da una delle interpreti di Big in Bombay forse proprio per questa via può trovare sollievo.
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Non fa meraviglia che Constanza Macras abbia scelto di tornare sulla scena in prima persona, cioè di rimettersi in gioco anche fisicamente. Il coinvolgimento personale è un elemento costitutivo dell’opera della giovane artista diventata ormai uno dei nomi più contesi della scena internazionale. Così, mentre le creazioni più recenti realizzate insieme alla sua compagnia Dorky Park sono ancora in stagione sul palcoscenico della Schaubuehne in Lehniner Platz, come lo strepitoso Big in Bombay, eccola presentarsi con un nuovo lavoro, No Wonder appunto, creato e interpretato in coppia con Lisi Estaras, come lei argentina emigrata da tempo in Europa (in Belgio però, dove lavora con Alain Platel, la si è vista in Iets op Bach e in Wolf).
La scena è quella dello Hebbel Theater a Kreutzberg. Non grande, e non ipermoderna, anzi con un che di antiquato, da mondo di ieri, che sembra voler suggellare la resistenza del quartiere all’avanzante modernizzazione della città. E però con un pubblico di giovanissimi che non lascia dubbi sul seguito di Macras. Quando si entra in sala, le due artefici sono già lì, in morbido abbandono su sedie a sdraio davanti al sipario di ferro calato. Camicie a fiori e pantaloni, entrambe. Mentre la radio sintonizzata su una stazione argentina trasmette George Harrison e musica sudamericana. Sfogliano riviste, bevono qualcosa. Chiacchierano con apparente svagatezza, nella loro lingua. Però nelle parole che si scambiano compaiono nomi impegnativi, e parole di solitudine e dolore che contraddicono il disimpegnato atteggiamento d’ozio.
Chi ha detto che la mente femminile è come una foresta? Idea suggestiva, da coniugare, se la si prende alla lettera. Diamoci uno sguardo, si dicono. Ed ecco infatti, al sollevarsi del sipario, una foresta tropicale di palme, banani dalle grandi foglie, liane e felci pendenti, piante dai lussureggianti fiori rossi. Distribuita su una impalcatura che definisce più piani scenici a diverse altezze, con scale a pioli e tende alla veneziana e un’amaca, e anche due schermi su cui si proiettano immagini ingrandite di quell’originario paradiso artificiale. Dove non mancano le presenze umane. Non solo le due scatenate artefici: con urla di spavento vi piovono altri due interpreti. Un danzatore tentato dagli abiti femminili. Una violinista rimasta impigliata fra i rami. Tocca a tutti loro popolare di immagini l’esotica foresta mentale. Cioè di personaggi, di figure, estratte da una memoria soprattutto giovanile, gli anni Settanta della prima giovinezza, fra miti argentini e cartoni giapponesi e serie tv americane.
Un immaginario fusion, potremmo definirlo. Come la creativa cucina asiatica di un ristorante sulla Oranienburgerstrasse, la strada alla moda per tirar tardi nella notte, all’angolo con l’Auguststrasse trasformata in dilatata esposizione artistica dalla Biennale berlinese di Maurizio Cattelan e soci – anche qui, fra i tavolini del ristorante, piccole palme e fiori, ombrellini decorati di lucine in fila, gli stessi colori verdi e rossi. Nell’immaginario di Estaras e Macras ci stanno Evita Peron e la piccola orfana Heidi, una crocerossina e una donna paracaduta in quell’universo da chissà quale pianeta di amazzoni, Lara Croft e Josephine Baker che balla vestita soltanto di una gonnellina di banane, l’arredatrice della middle class americana e Maradona che si moltiplica in una squadra di imparruccati replicanti per giocare una partita di soli numeri 10. Con un denominatore comune: un sogno o bisogno di potenza sovrannaturale che ripaghi la goffaggine del quotidiano. Ecco allora la donna bionica che si nasconde dietro la ragazza della porta accanto, ecco l’ironica Wonder Woman nel costume da pin-up con i colori della bandiera a stelle e strisce che fa lo sguardo cattivo e dice “tu sei morto” o si produce in malriuscite acrobazie. Mentre l’altra ripete le parole di un lontano filosofo un po’ misogino o gioca con un microfono fra le gambe.
Di tanto in tanto l’azione scivola in un passo danzato. Una danza di cadute nel silenzio. Un ruotare spogliandosi. Uno scivolare a terra di corpi nudi, esibiti con spudorata naturalezza. Cadono frutti acquosi che trasformano il palco in un pantano dove sguazzano in un wrestling erotico. Ambigua finzione. Che Constanza Macras attraversa con uno sguardo divertito e disincantato. I put a spell on you, dice l’ultima canzone. Uno sguardo pornografico, si potrebbe azzardare, se il termine non rischiasse di essere frainteso. Giacché poi dietro l’eclettica voracità con cui si consumano le immagini il gioco può farsi duro, dietro le eroine dai superpoteri si disegna l’ombra di Sylvia Plath, sotterranea ispiratrice del lavoro. Giacché poi si tratta per tutti di “ritornare al presente”, come recita Back to the present appunto. Che non è solo il difficile “ritorno al presente” che segue la fine di un amore.
© Gianni Manzella