• Lo sguardo nascosto dietro Il velo nero del pastore

    Doveva esserci uno spettacolo compiuto al termine del percorso creativo che iniziava Sul concetto di volto nel figlio di Dio, di cui la breve emozionante performance segnava una sorta di prologo. Ma qualcosa ha evidentemente reso definitivo quel lavoro, come se quella laica via crucis avesse toccato un oltre, un punto di non ritorno anche molto personale per Romeo Castellucci. Al posto della creazione mancata si installa ora un dittico, che ha quale altro terminale (altro in tutti i sensi, certo), virato dal bianco a un nero cupo, l’altrettanto breve azione de Il velo nero del pastore che ha debuttato nuovamente a Romaeuropa dopo una forse non convincente prima versione, la primavera scorsa, ma ancora in divenire sembra dirci.

    (Che ci sia qualcosa di insopportabile nelle immagini di Sul concetto di volto lo rivela anche la violenta contestazione che lo spettacolo ha raccolto a Parigi le settimane scorse, che non può essere liquidata solo col richiamo a una peraltro innegabile “libertà di rappresentazione”. Integralisti cattolici, si è detto, giovani dell’estrema destra cui si sono prontamente uniti i bravi musulmani che negli stessi giorni facevano saltare in aria la sede del settimanale satirico “Charlie Hebdo”, colpevole di aver scherzato con mano pesante sulla vittoria del partito religioso nelle elezioni tunisine. Non è solo in gioco la blasfemia o una “cristianofobia”, che naturalmente non ci sono in uno spettacolo che dice di dolore malattia e morte,  ma appunto di un elemento disturbante che la natura del teatro può scatenare).

    Il velo nero del pastore prende il titolo e rimanda in maniera non illustrativa a un racconto di Nathaniel Hawthorne, la parabola dell’ancor giovane reverendo Hooper che un bel giorno si presenta alla funzione domenicale con il volto coperto da un velo di crespo nero, senza un motivo o una spiegazione, e non lo toglierà più fino alla morte, fra lo sconcerto e poi la paura quasi superstiziosa della sua comunità. Cosa vuol nascondere, si chiedono i fedeli. Quale doloroso mistero o inconfessabile colpa.

    È dunque, di nuovo, questione di uno sguardo. E di una cancellazione. Al grande volto del Cristo, al Salvator mundi di Antonello che ci guardava negli occhi e da cui era difficile distogliere lo sguardo in quell’altro spettacolo, si è sostituito qui lo sguardo invisibile (e non rappresentabile, se non come metafora) di colui che ha messo tra sé e il mondo un velo, un sipario. E certo non è indifferente da quale parte si stia. La nostra non può che essere che quella dello spettatore, a volto nudo davanti all’enigma che sta al di là.

    Un sipario è appunto ciò che ci troviamo di fronte. Inquadrato in una cornice marmorea che reca istoriata sul frontespizio la tassonomia degli esseri viventi che ci lega al regno animale. Addossato a due alti abat-jour, come a dare una veste di classicità a una quotidianità domestica. Scompare nel buio che cala improvviso con fragore, sostituito da uno spumeggiare vorticoso che riempie tutto l’arco scenico di una materia argentea. Riappare dotato di una meccanica vita propria, arretra e torna ad avanzare più volte scoprendo a terra e di nuovo cancellando, come detriti lasciati dalla marea, il corpo abbattuto di un grande animale o quello nudo di una giovane donna che lentamente si risveglia, mentre la musica noise di Scott Gibbons cala di volume, si sfrangia in sfrigolii e sospiri che sembrano provenire da ogni angolo della sala.

    La vedremo distesa nello stretto varco creato al di sotto di una teca in cui si muovono dei criceti, in un’immagine che chissà perché ci ricorda una celebre performance di Marina Abramovic, però ribaltata in orizzontale. O a specchiarsi in uno specchio rotondo, mentre qualcosa sporca il suo viso. Ma intanto il corpo nudo disteso di spalle della protagonista, Silvia Costa, ci ha riportato d’improvviso davanti un’immagine più lontana ma non scomparsa nella memoria, quella iniziale di Hey girl!, punto di snodo di una involuzione dell’artefice della Societas Raffaello Sanzio, nel senso di un atteggiamento alla lettera riflessivo, di un coinvolgimento personale nel collasso del significato che il teatro gli rivelava. E che non sia proprio un caso lo dice anche il ritornare di quello specchio o lo stesso finale sostituirsi di un suo doppio maschile alla protagonista che rivestita ha riconquistato la posizione eretta. Così il volto dell’Uomo col turbante di Jan van Eyck, che là compariva capovolto sul fondale, ora può apparirci in una luce nuova o con ovvio anacronismo l’esito di un processo di negazione dell’apparire.

    Lei, la girl ritrovata, riprende la sua anabasi nel vuoto dello spazio scenico che è poi lo spazio dell’enigma. Barcolla e testardamente ogni volta si rialza sotto le fragorose scariche elettriche che disegnano per un attimo la traccia luminosa di una croce. Love song, enigmatica affermazione, è l’epigrafe che appare scolpita a grandi lettere. Ed ecco la sagoma di una locomotiva che avanza di sbieco a prendersi tutta la scena, troppo stretta per la sua mole, buttando fumo verso la sala. Concreta, pesante. Reale insomma. Eppure essa stessa immagine e non altro.

    Poi è di nuovo la volta del sipario chiuso, correlativo di quel velo nero che è un emblema, dice Castellucci con le parole di Hawthorne, assunte “come una specie di eredità”. Resta una fila di lampadine che scoppiano una dopo l’altra frantumate da un congegno meccanico. Per chi ha una più lontana consuetudine con il teatro della Societas è un déja vu, un po’ nostalgico.

     

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