In anni che ormai diventano lontani si era vista, a Parigi, la più emozionante Lulu che la memoria ricordi. Era una Susanne Lothar debordante di fisica vitalità, sotto la guida di Peter Zadek, così lontana dal personaggio fissato nell’immaginario collettivo da Louise Brooks nel film di Pabst. Capace di renderci ragione dello scandalo suscitato al suo apparire, cioè della sua irriducibile alterità alla rappresentazione della figura femminile che grondava dalle arti nella Parigi capitale del XIX secolo, dove cominciava a nascere il suo mito.
Oggi l’eroina di Wedekind ritorna, al Festival dei due mondi dopo il debutto l’anno scorso a Berlino, col volto di Angela Winkler congelato in una maschera bianca da teatro giapponese, ricreata in chiave di musical glaciale da Robert Wilson. Altrettanto lontana come si può immaginare da Brooks e sorelle. Piuttosto, quasi una summa delle esperienze dell’artista negli ultimi due decenni. C’è infatti alla base del grande spettacolo presentato a Spoleto il rapporto che Wilson ha stabilito con il Berliner Ensemble. E per dire quanto possa essere fruttuoso l’incontro di due tradizioni (almeno apparentemente) così distanti, il teatro formale del regista texano e la storica compagna berlinese, basta ricordare l’esito felicissimo dell’Opera da tre soldi di qualche anno fa, che metteva da parte il brechtismo d’antan (nel teatro di Brecht!) per tornare con altri mezzi agli irrequieti anni giovanili dello scrittore di drammi.
E ci sono poi le canzoni scritte da Lou Reed che rinnovano l’esperienza compiuta da Wilson con Tom Waits per l’indimenticabile più lontano Black rider. Ci era sembrato, quest’ultimo, una sorta di congedo dal musical, cioè un vertice al di là del quale non era possibile portare il genere più americano della scena teatrale. Qui alla partitura musicale sembrerebbe destinato un ruolo più funzionale, un modo per prendere le distanze dal melodramma incombente, se non fosse che quelle, le canzoni, non stanno al loro posto, guadagnano spazio fin quasi a diventare il vero testo dello spettacolo soppiantando l’altro. (E a misura di questa volontà egemonica o quanto meno di indipendenza, la Lulu “di” Lou Reed ha preso anche un’altra strada, una sorta di azione parallela l’ha fatta incontrare in un doppio cd con la band dei Metallica, ascoltare per credere).
Ladies and gentlemen, la morte di Lulu – strilla la voce di un invisibile presentatore. Siamo dunque sul palco di un acido cabaret, e ci sta, come correlativo contemporaneo della fiera in cui Wedekind esibiva i protagonisti della paradigmatica vicenda. E ci stanno pure le fiere che le girano intorno, una parata di livide figure maschili, in abiti scuri, quasi clownesche nei visi imbiancati su cui spiccano le labbra dipinte. Avanzano precedute dal tonfo dei loro passi legnosi. Si fermano a bocca aperta, in uno stupito tableau vivant, mentre un urlo soffocato è già risuonato in distanza. Ed eccola Lulu, arrampicata su una scaletta all’aprirsi della parete che funge da sipario, nel costume tutto bianco di una Pierrot assai dandy in posa per un ritratto. Al centro di un décor che è puro Wilson, cioè un album della sua maniera. Elegantissimo. Filiformi sedie e panche metalliche che si stagliano contro fondali cangianti. Paesaggi di lampade e tubi neon appesi che si accendono con colpi secchi. Figure che si muovono lente in controluce. Troppo forse anche per il mago texano, che nella seconda parte ribalta a sorpresa l’impianto. Ecco infatti una strada che corre diritta verso l’orizzonte, fra due file di stilizzati cipressi che accentuano il senso della prospettiva. Su cui però pendono una serie di lampadari a gocce, e qui è puro Magritte.
Intanto Lulu continua a morire. Una seconda, una terza volta, e ancora fino all’ultima e definitiva per mano di Jack lo squartatore, annegata in un buio assoluto, da cui emergono come spettrali presenze i volti opachi dei personaggi che abbiamo visto all’opera. Nel mezzo, cioè nelle tre ore dello spettacolo, si sviluppano le scene dissezionate dal testo. Da sfogliare come un album, o da visitare come una serie di stanze dominate da un’unica tonalità cromatica, quel livido bianco e nero da cui si staccano soltanto i lunghi guanti color verde smeraldo che fasciano le braccia della protagonista. Dove lo sguardo corre soprattutto ai margini, le crepe improvvise, le linee di faglia per così dire. Come la misteriosa custode della scena che va e viene rimettendo le cose in ordine, immaginatevi una Pupella Maggio ma più minuta, con un baschetto in testa, cantilenante “warum, warum”. Quando passa cantando la Sunday morning dell’ex Velvet Underground, be’ è un momento di grandissimo teatro.
Lentamente ci si accorge che a prendere in mano lo spettacolo e a dargli una coerenza sono gli attori del Berliner Ensemble. Da loro viene quella carica espressionista che senza intaccare il carattere formale del teatro di Wilson gli dona un colore. Sarà anche la lezione dello straniamento, ma qui tira aria di vaudeville, di cabaret fumosi nelle Monaco o Berlino a cavallo degli anni venti e trenta del secolo scorso. Su quei lenti attraversamenti della scena che “fanno tanto Wilson” inventano delle gag strepitose. E un po’ alla si finisce per affezionarsi, per dir così, a questi irresistibili nipotini di Nosferatu, vecchi libidinosi e giovanotti avidi.
Resta lei, Angela Winkler, che è l’attrice grandissima e capace di tutto che conosciamo bene. Che qui si concede quasi niente. Un muoversi a passettini saltellanti, un gesto appena, per non intaccare quella sua immagine di bambola meccanica. Certo, può essere anche questo la seduttiva Lulu, un puro simulacro delle fantasie maschili, un’immagine priva di sostanza. Iced honey, amore ghiacciato, come cantano tutti insieme alla fine con le parole di Lou Reed. Però che nostalgia, ripensando a Susanne Lothar che inseguiva il suo uomo brandendo un asparago. Qui gli asparagi sono serviti su un vassoio, e facilmente si scambiano per dei sigari.