Dopo qualche stagione dedicata all’esplorazione della drammaturgia meno conosciuta di Bernard-Marie Koltès, testi considerati minori se confrontati con quelli l’hanno reso noto e poco conosciuti anche in Francia dove pure il culto per lo scrittore non ha cessato di crescere dopo la prematura morte per Aids, Giovanna Daddi e Dario Marconcini hanno spostato la propria attenzione verso un altro caposaldo della drammaturgia novecentesca, qual è Harold Pinter. Anche in questo caso attraverso testi meno frequentati rispetto a quelli che costituiscono il ‘canone’ del Premio Nobel britannico, come queste “prove d’autore” con cui si compie il ciclo iniziato nelle stagioni scorse con Silenzio e Voci di famiglia.
Sono cinque brevi testi, pochi minuti ciascuno, che spaziano temporalmente dal 1969 di Notte al 2002 di Conferenza stampa, di cui Pinter fu anche il primo interprete in una serata londinese che, come qui, teneva assieme una serie di “sketches” – dunque un arco di più di trent’anni, successivo però a quel decennio o poco più in cui nascono i suoi capolavori. E che la regia di Marconcini non colloca in ordine cronologico ma secondo una più segreta scansione interna, in una sorta di moto ondoso dai territori della memoria a quelli della politica e ritorno.
Significativo è però che a introdurli sia invece un lavoro di Samuel Beckett, Catastrophe, che rappresenta un possibile punto di incontro fra i due artisti (Pinter ne fu interprete, nel ruolo del Regista, e con un vecchissimo John Gielgud a fare l’immobile muto Protagonista, nella versione filmata diretta da David Mamet nel Duemila per il progetto Beckett on film, chi vuole può vederla su Youtube). Molti in effetti furono tentati di dare una lettura tutta ‘politica’ del breve testo, in una chiave di antiautoritarismo, cui sembrava ben prestarsi la metafora del Regista che modella il Protagonista con l’aiuto di una volonterosa Assistente; anche perché a determinarne la genesi era stata l’adesione di Beckett a una campagna in favore del drammaturgo Vaclav Havel, futuro presidente della Repubblica ceca, all’epoca imprigionato e impedito a scrivere.
Marconcini resta più aderente alla lettera del testo, cioè alla sua ambiguità. Siamo in un teatro, dal fondo della sala risuona la voce del tecnico che deve far sparire nel buio il volto del performer che il regista ha ‘preparato’. Con un lieve slittamento però, quell’autoritaria figura registica interpretata da Emanuele Carucci Viterbi sembra qui meno imperativa, quasi sfuggente davanti a un compito svolto mal volentieri; quanto invece sembra che sia lei a tenere in mano il gioco, l’assistente cui Giovanna Daddi dona un tocco di ironica condiscendenza mentre sposta una mano o sistema il cappello della loro vittima.
Ecco invece, volgendoci a Pinter, il Monologo dei primi atti settanta accostarsi al più vicino Voci nel tunnel, una voce maschile contro una voce femminile, ancora Carucci Viterbi e Daddi, entrambe rivolte al nulla, a un’assenza che si materializza in una sedia vuota, per arrivare con un improvviso scarto alle torture promesse da Il nuovo ordine del mondo. E da lì scivolare verso l’apparentemente delirante Conferenza stampa con cui un nuovo ministro della cultura, in precedenza a capo dei servizi segreti, rivendica al proprio governo un programma di rieducazione dei dissidenti a base di stupri e uccisioni, perché si può accettare anche il dissenso, purché rimanga fra le mura di casa. È il Pinter più politico e interventista, quello che denunciava la politica estera americana e il terrorismo della Nato, e quel che è successo poi sembra dargli più di una ragione.
Si finisce, si diceva, con il ritorno alla dimensione intima, domestica dei due protagonisti di Notte. Seduti l’uno accanto all’altro dietro a un tavolo, senza mai rivolgersi uno sguardo, Daddi e Marconcini distillano fra molti silenzi, come pescando in una memoria lontana, le parole per dire il ricordo di un primo incontro. Ma le due memorie non coincidono, sembrano quasi evocare storie diverse, qualcosa si è perso o chissà. Eppure continuano. Dopo le crudezze dei lavori precedenti, questo sembrerebbe essere quello più velato di una malinconica dolcezza. È invece il più straziante, nel dire una fragilità in cui è impossibile non riconoscersi.
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Forse quel che proprio non bisogna fare, davanti a un testo di Harold Pinter come Silenzio, è cedere alla tentazione di leggervi lo sviluppo di una trama narrativa. Mettere insieme le scarne informazioni che trapelano dalle frammentatissime parole dei tre personaggi che occupano la scena per ricostruire una situazione, un tempo e un luogo dell’azione, coerenti rapporti personali. E poi: sono davvero tre i personaggi? E si tratta davvero di personaggi? Certo, si presentano con tre nomi sulla carta, cioè da copione. Ma poi quei nomi sulla scena non vengono mai pronunciati. Tutto qui diventa più ambiguo, sfuggente. Pinter come sempre è bravissimo a mescolare le carte, a creare zone d’ombra. A distrarre l’attenzione dello spettatore, lasciandola slittare n maniera impercettibile verso i meandri di un sottotesto che si rivela progressivamente. E che porta verso il silenzio del titolo.
Conta anche il fatto che questo breve testo, Silenzio, poche volte rappresentato, si colloca in una sorta di punto di flesso della scrittura per il teatro dell’autore inglese. Pinter lo scrive nel 1968, anno per altri versi rammemorato di cui però non porta il riflesso. C’è anzi quasi un voluto disinteresse per quelle vicende che segnano l’immaginario di una generazione, nel volgersi invece verso una dimensione all’apparenza molto privata. Teatro della memoria, si è detto. Giacché lì va a pescare, in quell’interstizio fra passato e presente. Con un cambio di passo non lontano da quanto sperimentato da Samuel Beckett, riconosciuto amico e maestro, in quegli ultimi lavori sempre più rarefatti. Alle spalle sta un decennio di testi che hanno dato a Pinter un’ampia, a volte controversa notorietà, dal Compleanno al Ritorno a casa. Che vuol dire anche la padronanza dei propri mezzi espressivi e uno stile riconoscibile. Ora lo staccarsi delle parole da un’azione concreta accresce, e non è paradosso, la necessità di dargli corpo.
Conviene allora restare ben piantati sulla scena, sul palcoscenico del teatro Francesco di Bartolo a Buti. Dove Dario Marconcini ha messo in scena benissimo il testo. Sulle note autunnali di una canzone di Paolo Nutini, le sagome di tre figure si stagliano in controluce sul paesaggio nebbioso disegnato sul fondo. Un pittorico intreccio di rami spogli, una foresta priva di vita. Un’immagine lontana e tuttavia avvolgente, nell’isolare quelle figure da tutto ciò che è esterno, come in un quadro di Bacon. Stanno seduti in fila, in primo piano, quasi sempre senza guardarsi. Lei più in alto, su uno sgabello da bar; i due uomini su poltroncine che, nella loro diversità, sembrano connotare anche una (forse ingannevole) differenza sociale – ed è ancora il Beckett di Dondolo che può tornare alla mente. Parlano, a turno. Spesso con lunghe pause. Ricordano – solo la metà delle cose, dice lei, solo la prima parte. E questo ricordare a metà è il sintomo esteriore di una perdita di memoria che si fa specchio delle volontà ritrovarsi in un passato che sbiadisce. Non per caso parlano al presente, quasi senza eccezione. Come se si descrivessero nell’atto di compiere ora quelle passeggiate, quelle fughe in città, quegli incontri fugaci su cui si ostinano. Per pochi momenti si sollevano in piedi, si lanciano uno sguardo, sembrano dare inizio a un dialogo. Ma è un falso movimento, che prosegue quel loro solitario cercare nelle parole un sentimento perduto.
L’assenza di un tempo storico, l’impossibilità di dare una cronologia ai momenti evocati, è del resto la prova più marcata del fatto che quel che sta al centro non sono i singoli atti ricordati, per altro di dubbia veridicità, pervasi da un’ambiguità persino un po’ losca, ma l’atto stesso del ricordare. L’essere vecchi è l’unica condizione esistenziale riconoscibile, la solitudine il necessario corollario. Il tempo che conta è quello della scena, il tempo vissuto anche dallo spettatore. Quello in cui si consuma, con un brivido, l’avvicinarsi al silenzio. Il silenzio dell’afasia e della smemoratezza, non quello vitale di John Cage. Perché le parole con cui si ricordano a se stessi prendono a ripetersi, entrano in un gorgo che le svuota e poi le abbandona, ormai senza senso.
Resta da dire degli interpreti, che sono bravissimi, Giovanna Daddi e Emanuele Carucci Viterbi insieme allo stesso Marconcini. Daddi e Marconcini hanno ancora bene a mente la lezione del grande Jean-Marie Straub, la burbera maniera in cui li sollecitava a leggere ogni riga di un testo come uno spartito musicale (era allora Pavese…), e si riflette nei lavori che da diversi anni vanno proponendo. Scelte appartate, raffinatamente minimali, come la scoperta di alcuni testi meno noti di Bernard-Marie Koltès. O il Racconto della serva Zerlina della scorsa stagione, che proiettava gli Incolpevoli di Hermann Broch fra i colpevoli della storia. Un dono, detto senza retorica.
(2014)
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Che tristezza! E che desolazione! Non lascia proprio speranza questo atroce e dimesso Voci di famiglia che Harold Pinter scrisse nel 1980, giusto nel mezzo fra due testi che hanno per oggetto la memoria quali sono Tradimenti e Una specie di Alaska, come dire il progressivo regredire alle origini del disamore e un caso clinico che spinge a riconsiderare il rapporto fra passato e presente. Scritto come testo radiofonico in realtà, per la BBC, ma poi traslocato subito anche sulla scena, protagonista un’anziana Peggy Ashcroft celebre anche per meriti cinematografici, Voci di famiglia non ha trovato mai un riconoscimento sulle nostre scene, a differenza degli altri due. Sarà forse per l’attacco a piedi giunti a quel caposaldo sociale che ancora è la famiglia. Ci pensa ora Dario Marconcini che a Buti aveva già diretto un altro testo poco o nulla frequentato del drammaturgo inglese, ancora una volta incentrato sulla perdita di memoria, l’enigmatico Silenzio.
Qui le cose sono all’apparenza più facili. Non è difficile individuare due personaggi nelle figure che si presentano in scena sull’onda vagamente inquieta delle musiche di Angelo Badalamenti per David Lynch: siamo insomma dalle parti di Twin Peaks, in equilibrio ancora instabile fra deriva nel melodramma e virata horror. Una madre e un figlio. Sono Giovanna Daddi ed Emanuele Carucci Viterbi, bravissimi. Vanno a sedersi fra gli arredi che hanno liberato dai teli bianchi che li ricoprivano – ed è anche questo un gesto pieno di significato, come se tornassero ad abitare luoghi da tempo abbandonati. Lui molto colorato e irrequieto, su un divanetto in primo piano illuminato da una luce rossa che ricorda una camera oscura, anche qui c’è in gioco in fondo un tempo di esposizione. Lei più dietro, immobile accanto a un tavolino su cui incombe una nuda lampadina. Il capo un poco reclinato. Non si capisce a quale universo sia connessa. A separarli non è soltanto il velatino teso sul palco del teatro Francesco di Bartolo.
Io sto molto bene, comincia lui. È una lettera, si capisce. Racconta della sua nuova vita nella grande città, la casa dove ha trovato alloggio, l’accogliente stanza da bagno, gli strani abitanti di cui fatica a riconoscere possibili rapporti di parentela, visto che tutti si chiamano allo stesso modo. Il tono è allegro, disinvolto, anche quando qualcosa si smargina, e il racconto diventa più ambiguo, scompaginando la possibilità di una trama narrativa. Come quei drink e quelle pinte di birra e Campari soda, in cui ricade di continuo dopo averli negati un attimo prima.
Dove sei? Perché non scrivi mai? chiede lei. Ti ho scritto tre mesi fa per dirti che tuo padre era morto. Scandisce le parole con ritmica precisione, quasi scolpendole. Ma quelle sue parole non hanno un reale interlocutore, la commedia epistolare è fatta tutta di lettere forse mai scritte, certo mai ricevute. Ed è lì che si insedia il non detto, dove cioè il non detto può uscir fuori feroce proprio perché non avrà una risposta con cui confrontarsi. Ed è un alternarsi di preghiere e di maledizioni, di lusinghe e di malinconie, soprattutto dalla parte di lei. Più lineare è lo svelarsi progressivo della discesa di lui in un altro inferno domestico, mentre ne decanta la felicità, fra una lolita che divora pasticcini e l’uomo dalle inequivocabili inclinazioni sessuali che si dichiara profondamente religioso e poliziotto di professione.
C’è una terza voce, la voce del padre che solo alla fine esce fuori da quella sorta di zona d’ombra in cui si nasconde (è lo stesso Marconcini, il volto celato da un cappello di feltro). La bara di vetro da cui guarda il mondo e da cui può burlarsi della sua stessa morte. Un saluto dalle tenebre. In altri tempi sarebbe stato il deus ex machina tornato per rimettere insieme i pezzi della storia. Qui può soltanto farsi fantasma burlesco dello straziante sentimento di avere tante cose da dire, quando non c’è più il tempo di dirle. Quando la strada del ritorno è diventata intempestiva. Musicalmente siamo entrati nel territorio del lamento. Non per caso il finale sarà accompagnato dalla musica del Dido and Aeneas di Henry Purcell. Resta sospesa un’assenza che si muta in una domanda. Il significato della parola amore.
(2015)
© gianni manzella