Forse non è proprio come quando i fuoriusciti dello Squat theatre fecero irruzione a ovest, in un mondo ancora diviso da un sipario di ferro, trascinando gli spettatori dentro la loro casa occupata dove Andy Warhol conviveva con Dostoevskij e veniva ucciso da Ulrike Meinhof. Però qualcosa ce li ricorda, quest’altra tribù di ungheresi che, come ci poteva aspettare, ha spostato un poco l’asse del festival di Santarcangelo 2011, saldamente ancorato all’arte dell’attore. Ci si chiedeva da tempo chi avrebbe portato per la prima volta in Italia il teatro di Mundruczó Kornél, trentacinquenne regista ungherese da qualche anno esploso sulla scena internazionale e già avviato anche su quella cinematografica. Ci è riuscito Santarcangelo, sia pure a prezzo di rinunciare in parte alla complessa struttura scenografica originariamente pensata dall’artista. E ne è valsa la pena, davanti a un teatro capace ancora di dividere e provocare rifiuti, non solo da parte degli spettatori ma anche di presunti cultori della materia (che piacere vedere le loro boccucce storcersi).
Frankenstein-Project è il lavoro che per primo ha rivelato Mundruczó sulla scena internazionale, prima di essere tradotto in forma cinematografica e in maniera non meno disturbante stando alle accoglienze ricevute l’anno scorso al festival di Cannes (qualcuna persino eccessiva nel tono liquidatorio, c’è chi lo definisce “disastrously bad”, mentre la rivista Variety si limita ad accusarlo di lesa psicologia a cospetto del romanzo di Mary Shelley). Il cinema, il suo linguaggio e la sua struttura, sono per altro strutturalmente connessi alla genesi dello spettacolo teatrale. La situazione iniziale piomba infatti dentro il casting per un film da farsi grazie a finanziamenti comunitari, in un set rimediato dentro un capannone attrezzato a mensa per rifugiati. C’è un regista con una giovane assistente piazzata dietro la videocamera e prevedibile destinataria della sua derisione. Il regista è volgare e arrogante nell’imporre il proprio ruolo e una “aura” che sa di non possedere. Le persone che si presentano al provino sono le più diverse e dimesse. Due pensionate costrette a mimare lacrime che hanno già versato nella vita. Una ragazzetta che vorrebbe fare la macellaia ma intanto si mostra disponibile a tutto pur di esserci. Un ragazzotto dai modi autistici, non si capisce come sia finito lì, nemmeno risponde alle domande.
Poi succede qualcosa. Il regista tenta di far interagire il ragazzo e la ragazza, gli mette in mano la videocamera, li spinge fuori perché si sentano più a loro agio lontano dagli sguardi. Succede in fretta, un urlo fuori scena fa presagire che la ragazza è stata uccisa, in scena piomba un poco probabile investigatore ungherese alla ricerca di un ragazzo fuggito da un istituto di correzione. Ma anche la traccia noir dura poco, giusto il tempo di mescolare le carte, per la confusione dello spettatore condotto a interrogarsi su quale teatro nel teatro l’aspetti. Il fatto è che i piani sono destinati programmaticamente a moltiplicarsi, a cominciare dal melò costruito sulla labile impalcatura del romanzo, la vicenda della creatura abbandonata al suo destino che ritorna in segreto e uccide.
Perché i personaggi che abbiamo fino a lì incontrato si scoprono progressivamente legati tutti da un garbuglio di vincoli affettivi o di sangue. Il regista è stato in passato con la donna che ora tiene la mensa, a cui cerca di imporre la replica stanca e violenta di un desiderio che non prova; il ragazzo tornato per uccidere è figlio loro, lei lo riconosce da un tatuaggio. Ma non è questione qui di un moderno Prometeo, ché anzi il mostro o il diverso nasce da un non volere, da un sottrarsi alla responsabilità di generare. Non è in ogni caso la vicenda che interessa a Mundruczó, buttata via con una sorta di irrisione per i suoi tempi e la sua verosimiglianza. Quanto piuttosto la verità che vi si mostra, le ferite che apre in una realtà che i monitor presenti in scena ci mostrano sempre opaca, scolorata. E il sentimento di insoddisfazione che traspira. Alla fine li ritroviamo tutti riuniti, gli attori, lividi morti viventi imbrattati del sangue versato fuori scena, a cantare attoniti e dolenti I can’t get no satisfaction. Agghiacciante, bellissimo. Il momento di teatro di più forte emozione di questa estate.