Alla base del faro non c’è luce.
Uno spettacolo parlato. Un bisogno di parole, di prendere la parola percorre a folate Dopo la battaglia. Le parole per dire lo spirito dei tempi e un disagio personale che è dell’artista ma si trasmette allo spettatore. A lungo lo spettacolo sembra non voler cominciare. Bisbiglii, voci fuori campo, rumori di pesanti porte che sbattono. Gli attori appaiono immobili sul fondo, raccolti in posa davanti a una fila di poltroncine rosse, simulacro del teatro negato. Abiti rossi e neri, borghesi e prelatizi. Come un Balcon genettiano, o in un film di Buñuel, però calato dentro la cornice delle Meninas di Velazquez.
La voce dell’artefice giunge dalla platea. Da lì urla la sua rabbia. Racconta di un naufragio, di uno spettacolo che non si è potuto fare. Di cui questo, a cui assistiamo, rappresenta quasi il detrito. Quel che resta al ritrarsi della marea. La musica verdiana del Macbeth. Il piccolo Bobò che attraversa la scena appoggiandosi a un bastone, sublime simbolo e paradigma del teatro di Pippo Delbono. Una ballerina precipitata qui da chissà quale universo parallelo, col viatico del suo inevitabile Čajkovskij. Due figure immobili e distanti nel vuoto grigiore della scena, dicono di un guardiano seduto davanti alla porta della legge e di un uomo che per una vita intera attende lì di fronte di poterla varcarla, senza sapere che quella porta era lì solo per lui.
Lo spazio è una vasta sala dalle alte pareti grigie, priva di finestre, potrebbe ricordare lo stanzone severo di Kontakthof, il “luogo di contatti” di uno dei lavori più amati di Pina Bausch. E non si fa invano il nome della coreografa di Wuppertal. Del resto anche qui è questione di ballo, anzi proprio di balletto nell’accezione più classica, c’è anche una étoile dell’Opéra di Parigi, naufraga lei pure su quest’ultima spiaggia. Ma tutto sembra più tetro, e immobile. Una zona d’ombra. Lì dentro, la luce non entra che dalle porte, quando a momenti vi si aprono verso l’esterno. Porte blindate dotate di uno spioncino, che richiamano l’idea di uno spazio reclusorio e non sapremmo dire se stiamo di qua o di là da quella fisica barriera, che forse non separa ma pareggia il di là e il di qua. E infatti la memoria dell’istituzione totale ritorna, a folate ancora, nelle parole come nelle immagini filmate che si proiettano sempre più di frequente sul fondale, come a cercare di aprirlo sul mondo. Immagini di reclusi. La voce poetica che sublima l’esperienza manicomiale di Alda Merini. L’amara profezia di Pasolini. L’utopia rivoluzionaria che si riflette, ormai lontana, nella voce di uno dei capi storici di una lotta armata che insanguinò anni altrettanto lontani.
Paesaggio dopo la battaglia, diceva un titolo di Wajda. Quasi impossibile non ricordarlo. Ed è quell’ambiguo “dopo” che sconcerta, nell’incertezza se lo sguardo debba correre al paesaggio di morte e rovine lasciato dalla conclusa battaglia o se la mente debba aprirsi al ricominciare che c’è dopo ogni fine, soprattutto se sanguinosa. Domani nella battaglia pensa a me, ammonivano i fantasmi di Riccardo III. Ma la battaglia è sempre vinta e persa, non c’è scampo. Che si parli del paese nostro, non ci sono dubbi. Ahi serva Italia, di dolore ostello – dice Delbono con le parole di Dante. Mentre il sommesso “Va, pensiero” verdiano ricorda altri asservimenti, altri aneliti di libertà, nell’evocazione di una patria sì bella e perduta. Ma l’artefice gioca a mescolare le carte, come sempre. Il pubblico si intreccia con il privatissimo, come la danza classica di Marie-Agnès Gillot, ėtoile dell’Opéra di Parigi, incrocia (senza negarla) la diversa tradizione incarnata da Marigia Maggipinto, che viene dalla compagnia di Pina Bausch. Così non stupisce l’apparire, fra altre, di un’immagine domestica della madre dell’artista, con la sua lingua ligure così ferocemente materna.
Quanto La menzogna, la precedente creazione, era esplicitamente dedicata “a mio padre”, in un letterale denudamento in cui si consumava la volontà dell’artista di misurarsi con i propri fantasmi, con la propria vergogna – altrettanto chiaramente Dopo la battaglia è dedicato alle madri. E se là, dalla crudezza dello smascheramento emergeva la consapevolezza di una più profonda pietas, qui il sentimento è più velato e allo stesso tempo più libero di esprimersi in gesti.
Un mazzo di rose rosse danza fra le braccia di un’interprete, poi resta deposto in proscenio. È l’omaggio silenzioso dell’artista alla signora di Wuppertal, maestra e madre della sua idea di teatro. Danza, danza, altrimenti siamo perduti. O altrimenti: non piangere, canta. (Pippo Delbono non può forse sapere che una grandissima attrice, Núria Espert, con lo stesso gesto silenzioso aveva salutato in scena Victor Garcia, sono passati pochi anni e anche i nomi sbiadiscono, quelli del teatro sembrano scritti sulla sabbia).
Naufragium feci, bene navigavi.
E il teatro? C’è ma è come se Delbono volesse negarlo, a lungo. Si allarga nelle crepe dello spettacolo, come il folgorante siparietto imbastito da Nelson, l’“americano” di Napoli dal corpo emaciato, che si moltiplica per tre nell’immagine proiettata sul fondale mentre danza il suo sogno di essere Fred Astaire, con cilindro e bastone, però sulla musica contagiosa di Fiorenzo Carpi per il Pinocchio di Comencini. Esplode in improvvisi guizzi, immagini derisorie come lo sberleffo all’imparruccata sindaca di paese che discetta di poesia o dolcemente crudeli come il balletto meccanico di tre figurine clownesche manovrate da inservienti in camice bianco. Prende campo e si distende nei momenti di maggiore concentrazione emotiva. È la danza uscita dalle tenebre di un corpo tremante, illividito da un colore di terra, capace di ricordare l’Eva di Masaccio cacciata dal paradiso, altra figura materna dopo tutto. O il gesto zen che Gianluca traccia nell’aria, come un tenero Buddha. E ancora Bobò che attraversa la scena con una delle sue amate bandiere, ma questa volta è quella nazionale, in mezzo a un moltiplicarsi di travestimenti. E come altre volte ci troviamo ricondotti nel mezzo delle immagini sempre un po’ surreali che si affollano nel mondo onirico di Delbono, dove è dolce naufragare. La sarabanda grottesca delle figurette che sembrano conoscere solo quei due colori, il rosso e il nero, moltiplicati su parrucche sciarpe cappelli scarpette fiori su capelli. O la lotta delle signore in rosso per conquistare la scena.
E allora anche l’étoile può liberare la sua danza, il suo canto del cigno in tutù e sulle punte. E si moltiplicano le incursioni del violino di Alexander Balanescu, artista che ha fatto della contaminazione di stili e geografie un accattivante virtuosismo. E la voce dolce e triste di Maria Salgado col suo Adio querido lascia il posto a Henry Salvador che accompagna tutte le ragazze dello spettacolo a stringersi attorno a Bobò, dans mon jardin d’hiver, dopo aver conquistato un abito candido. Perché è lui questa volta, l’uomo senza età vissuto per quasi mezzo secolo in manicomio, lui con la sua sordità e libertà, lui con la sua maestria sorgiva e inconsapevole, il destinatario della dedica finale. “A questo piccolo grande uomo che mi ha ridato la vita”, dice Pippo Delbono. E chi conosce la biografia dell’artista ligure sa che non è un modo di dire.
L’importante è imparare a sperare, insegnavano i maestri. Di una speranza proiettata all’infinito parla Dopo la battaglia. A cui si può dare il nome di fede, come succede qui. E nella parola, nel reciproco impegno che sottintende, può ritrovarsi lo spirito laico come il buddhista che l’accoglie con un gesto di riconoscimento. C’è in questo affetto espansivo una spinta che va contro la passività, contro la rinuncia a prendere posizione. Certe cose si possono dire con le parole, altre con i movimenti – qui è ancora Pina Bausch che insegna. Ma ci sono anche momenti in cui si resta senza parole, confusi e perduti. A questo punto comincia la danza, che vuol dire trovare un linguaggio per quello che non si può immediatamente tradurre in parole. Che altro può fare il teatro? La battaglia è finita. E dello spettacolo che non si è potuto fare, chi si ricorda più.
P. Bausch, Dance, dance, otherwise we are lost, “art’o” n. 4, gennaio 2000.