Dimenticare Luca Ronconi. È forse questa la posizione da assumere per guardare al Calderón che Fabio Condemi ha messo in scena a Bologna (dal 22 novembre al LAC di Lugano che coproduce lo spettacolo insieme a Ert). Dimenticare la prima messinscena dell’opera di Pier Paolo Pasolini avvenuta a Prato più di quarant’anni fa. Che naturalmente resta indimenticabile per chi era presente in quei giorni d’estate del 1978 al Metastasio, fra gli spettatori raccolti nei palchi a guardare dall’alto la scena e la platea unificate in un unico spazio. In questione c’è la distanza che ci separa, culturalmente prima di tutto, dal momento in cui lo scrittore friulano poneva mano al suo teatro, lo si osserva già a proposito alla bella prova di Federico Tiezzi di qualche anno fa. Un teatro che lo stesso Pasolini definiva quasi “postumo”, scritto nel giro di poco tempo, sul finire degli anni sessanta e praticamente mai rappresentato prima della morte dell’autore.
Vuol dire verificare come temi ancora attuali all’epoca del Laboratorio di Prato (le lotte studentesche e quelle operaie, il Sessantotto contro cui si esprimeva polemicamente Pasolini, il franchismo al tramonto…) possano presentarsi agli occhi di generazioni più giovani, volendo sottrarli a una visione mitica. Ciò che pare rilevante è che questa distanza investe oggi gli stessi artefici. Significativamente questo Calderón inaugura un progetto ideato da Valter Malosti insieme a Giovanni Agosti nel centenario della nascita dello scrittore: presentare nel corso della stagione tutti i testi teatrali dell’autore friulano, affidandone la realizzazione a registi della generazione più recente (ci saranno fra gli altri Giorgina Pi, Federica Rosellini e Gabriele Portoghese). Come il poco più che trentenne Fabio Condemi, rivelato dalla Biennale di Venezia e già passato attraverso una prova pasoliniana.
Lontano dalla lettura strutturale di Ronconi, lontano anche dalla teatralità ritrovata da Tiezzi (non è facile dimenticare questi precedenti), Condemi sembra voler perseguire una sorta di verosimiglianza del testo, dove se metafora c’è deve uscire da una vicenda comunque credibile. Sono insomma realmente sogni quelli della protagonista Rosaura che, replicando la vicenda del capolavoro di Calderón de la Barca, si risveglia prima come aristocratica nella Spagna franchista, poi come miserabile prostituta in una borgata di Barcellona e infine come piccolo borghese qual è ma si rifiuta di riconoscere (sono nell’ordine di entrata Matilde Bernardi, Carolina Ellero e Giulia Salvarani). Dove sono? chiede ogni volta. Non riconosce il letto dove si trova, non riconosce la sorella che le sta accanto.
Calderón è un ripensamento critico de La vita è sogno calato dentro la cornice figurativa delle Meninas. Che non è soltanto un riferimento visivo, il capolavoro di Diego Velázquez. Sogno dentro il sogno, sembra dire l’immagine degli interpreti che si ritrovano tutti quanti, rivestiti di fruscianti costumi seicenteschi di carta, stipati dentro una cornice a occupare più o meno le posizioni deputate del celebre dipinto. Ma soprattutto è chiave di lettura del discorso di Pasolini, dice l’immagine dell’artista che si dipinge nell’atto di dipingere un soggetto che si intravede appena nello specchio alle sue spalle, circondato dall’infanta di Spagna e dalle sue damigelle. Contemporaneamente dentro e fuori dell’opera, come è qui esplicitamente lo scrittore.
Non a caso, dopo il prologo affidato allo Speaker che tornerà altre volte come portavoce dell’autore (ma con il tocco di perplessa ironia comunicato da Marco Cavalcoli), l’azione parte dal letto dove riposa la reale Rosaura, sotto lo sguardo delle due ragazze in camicia da notte che a danno corpo alle figure del sogno. Quando il letto si fa da parte e si solleva il diaframma apre allo spazio del sogno, appare un ambiente di elegante minimalismo, però dominato dal ritratto del caudillo Francisco Franco, davanti a cui le due sorelle salutano a braccio teso la nuova giornata prima di dedicarsi a sfogliare una serie di dispositive di capolavori del Prado. Siamo nell’anno 1967. Per proiettarsi davanti al tugurio dove la donna già avanti con gli anni si offre a un ragazzetto che non ne vuole sapere. O infine davanti al lungo tavolo dove la protagonista ormai guarita può dire di un altro sogno al marito-padre e al suo trasgressivo alter ego, che hanno i rivelatori nomi calderoniani di Basilio e Sigismondo (sono Michele Di Mauro e Emanuele Valenti).
Calderón resta un archetipo del “teatro civile” propugnato da Pasolini ma soprattutto un condensato scenico della visione storica e del tema ideologico che da “corsaro” l’interessa: qual è (o era, in quel momento) la realtà della borghesia. A cui lei invano tenta di sottrarsi rifugiandosi nella malattia o appunto nel sogno, dove l’incesto ogni volta sfiorato rappresenta la più estrema forma di ribellione immaginabile. L’ultimo risveglio avviene dentro un lager da dove Rosaura sogna di essere liberata da un esercito di operai con le bandiere rosse. Ma questo è proprio un sogno, le risponde il marito-padre. Giacché non potrà mai essere la realtà. Inutile dire che su questo Pasolini è stato buon profeta.
© Gianni Manzella