Lo spettacolo si chiamava Café Muller. Anno 1980, forse prima. Sulla scena racchiusa da alte pareti grigie, invasa da un mare di sedie che qualcuno si affannava a tirar via per consentire i passi degli interpreti, un piccolo gruppo di danzatori inseguiva la musica di Henry Purcell. D’un tratto una coppia si correva incontro, si stringeva in un abbraccio, ma le braccia dell’uomo subito cedevano e la ragazza gli scivolava via; invano un altro, sorta di maestro di cerimonia, cercava reiteratamente di ricomporre quel gesto di intimità. Quell’abbraccio non era più possibile replicarlo, restava solo la struggente memoria del suo gesto.
Così, nel segno dell’emozione, è avvenuto per molti il primo incontro con Pina Bausch. Con questa dolorosa elegia, poi rivista più e più volte, che danzava il distacco nella morte da una persona amata. Siglata non per caso dalla presenza sulla scena della stessa artefice, come poi sarebbe stato, ma solo per un breve momento, in quell’altro bellissimo commiato (e forse anche lo spettacolo più ascetico e zen della coreografa) che fu Danzon. Il distacco ora di chi si mette in viaggio, o di chi sa che è impossibile fermarsi, comunque bisogna andare. Un guardare indietro senza rabbia, anzi con una sorta di serenità che poteva sconcertare chi era stato preso dall’espressività figurativa forte di altri suoi lavori. Danzava Pina Bausch con il corpo e le braccia, ma i piedi fermi a terra, come nuotando nell’acqua dell’acquario tropicale che sullo schermo alle sue spalle si animava di pesci mostruosamente ingranditi. E a un tratto il braccio si tendeva verso l’alto, in un misterioso gesto di saluto.
L’emozione, ecco. Associo quasi inevitabilmente il nome della maestra di Solingen a questa parola. Come dimenticare del resto l’uscita dal teatro con lo sgomento lasciato dalla favola crudele di Blaubart o di Auf dem Gebirge. Con il dolore accumulato nel tempo ristretto di Café Müller. Con la lezione sentimentale appresa fra le pareti di Kontakthof. Con l’eccitazione febbrile di 1980. Quella disegnata da Pina Bausch è dall’inizio una geografia sentimentale, o meglio ancora una geografia dei sentimenti. Una mappa implacabile del sentire umano, col suo inestricabile groviglio di violenza e tenerezza, di solitudine e ricerca di incontri, col suo inesausto bisogno di seduzione e di fuga.
Più di altri, Pina Bausch è stata capace di gridarcelo gioiosamente, con la leggerezza dei suoi attori. Vestiti leggeri e tacchi alti. Assoli struggenti costruiti movendo quasi solo le braccia, in un muto linguaggio gestuale. Esili gag capaci di dare il via a trascinanti azioni collettive.
Ma questo dopo, superata appunto la soglia dell’emozione. O di quello stadio pre-linguistico dell’emozione che immediatamente ci tocca davanti al gesto del performer. Perché c’è forse, nell’emozione che viene dalla scena, l’intuizione di qualcosa che solo dopo potremo rielaborare razionalmente. In realtà il gesto del performer ci sorprende. E ci confonde. Non è chiarificatrice, l’emozione, non è affatto rassicurante. Non serve a mettere ordine nel caos interiore ma al contrario intorbida le acque, aggiunge disordine. Se pensiamo alla coscienza individuale come una massa fluida, dove di continuo lentamente qualcosa risale in superficie e qualcos’altro precipita verso il fondo, l’emozione provocata dal fatto artistico ci appare come un atto di sommovimento delle quiete acque interiori, capace di portare verso la superficie ciò che è sedimentato nella coscienza. E non è forse superfluo notare quanto di politico ci sia in un gesto capace di sovvertire troppo facili certezze.