C’è chi sostiene che ultimi giorni dell’anno dovrebbero essere votati alla speranza. Sarà per ottimismo, magari per scaramanzia, che in questa mattina di San Silvestro ho deciso di leggere La possibilità della gioia. Che non è solo un titolo pieno di auspici. Ma è anche il saggio di lungo respiro in cui Gianni Manzella racconta Pippo Delbono. Per essere più precisi: in cui l’autore del libro racconta se stesso attraverso i lavori di una delle figure più rilevanti della scena europea (ma non solo) di questi trent’anni.
Manzella lo può fare, perché oltre ad aver seguito passo dopo passo, titolo dopo titolo, avventura dopo avventura, il percorso d’arte di Delbono, condivide con lui una prossimità invidiabile: un buen retiro, un minuscolo paese delle Alpi che li accoglie entrambi, stagione dopo stagione Me li immagino – forse anche in questo momento – circondati dalla neve là fuori, che si scioglie appena appena al fuoco di un caminetto attorno al quale si raccontano l’uno all’altro. Proprio come li ho visti molte volte fare. Oppure prendere zaino e bastoncini per incamminarsi insieme, d’estate, lungo sentieri sopra i quali veglia la maestosità del Monte Bianco.
Diventa più facile, con queste immagini in mente, muoversi tra le pagine del libro che, una volta scelti il simbolo figurale del viaggio e i versi di Konstantinos Kavafis, veleggia tra scrittura saggistica e passeggiata letteraria. Una rotta che si distende tra tanti scali (i trentanove titoli teatrali e cinematografici che Delbono ha finora inanellato) senza negarsi la possibilità di molteplici escursioni verso altri paesaggi, cari all’autore. Il quale ricorda più volte che Itaca rappresenta la meta, ma ciò che veramente importa è il viaggio.
Itaca ti ha dato il bel viaggio, / senza di lei mai ti saresti messo / in viaggio: che cos’altro ti aspetti? (Konstantinos Kavafis, Itaca)
Può capitare dunque che ci si ritrovi davanti al Grande Cretto di Alberto Burri, il sudario di cemento che lo scultore aveva steso sopra le rovine del paese siciliano di Gibellina, distrutto dal terremoto del 1968. Là nel 2000, Delbono inventava uno dei suoi spettacoli più evocativi, Il silenzio. Oppure davanti a un altro abbandono, quello dell’Hotel des Bains, al Lido di Venezia, alle impalcature che oggi lo soffocano. Mentre poco distante si proiettava Vangelo, il film presentato da Delbono alla Mostra del Cinema 2016. Il titolo è lo stesso di uno spettacolo, inseguito da Manzella fino a Zagabria, al debutto del dicembre 2015, un’occasione per scoprire nella capitale croata anche l’inaspettato Museo delle relazioni infrante, reliquiario dell’abbandono.
Così come si possono riconoscere i luoghi e le figure che contraddistinguono gli anni d’apprendistato di Delbono. La fuggitiva esperienza a Pontedera con l’attore santo di Grotowski, Ryszard Cieslak. Il training estenuante con i seguaci di Eugenio Barba a Hostelbro e a Fara Sabina. Il magistero silenzioso di Pina Baush nella grigia Wuppertal. E intrecciare al tempo stesso i maestri del pensiero novecentesco che costellano l’architettura critica di Manzella. Da Antonin Artaud a John Cage, da Claude Lévi-Strauss a Susan Sontag. E chiavi di lettura che mettono in circolo i nomi di Sergej Ejzenstein, Giuseppe Bartolucci, Zygmunt Bauman, Giorgio Agamben.
Ci sono parecchi altri libri che raccontano vita e opere di Delbono. Da quello curato per Ubulibri nel 1999 da Alessandra Rossi Ghiglione, a quello edito sette anni fa per Barbès da Leonetta Bentivoglio, con le fotografie dello spesso Delbono. Per non parlare della vasta bibliografia internazionale. Ma è nella Possibilità della gioia che si dispiega un rapporto tra artefice e osservatore nel quale l’interpretazione – e sarebbe più giusto parlare di conoscenza – trova una mappa simile a quella che Grotowski suggeriva di costruire parlando di “itinerario dell’attenzione”.
Il momento più evocativo del libro, per me, è nel piccolo capitolo di snodo, in cui riprendendo in mano un suo diario di allora, Manzella ripercorre il viaggio fatto assieme a Delbono, in Israele e Palestina. A cavallo tra 2002 e 2003, quindici anni fa, esattamente in questi giorni. Un itinerario ad ostacoli tra fili spinati e posti di blocco che li fa muovere da Gerusalemme a Betlemme, a Ramallah, per presentare in 5 teatri palestinesi lo spettacolo Guerra. Le immagini di quell’esperienza si possono ancora rivedere nel film anch’esso intitolato Guerra.
Non sono capace di parlare d’altro che della mia vita, dice Sophie Calle in un momento del film Amore e Carne, un altro film di Delbono. E mi scopro a pensare che, diversamente da Manzella (il quale ha il dono di registrare meticolosamente le proprie visioni su piccoli quaderni ordinati, i Moleskine che gli regala suo figlio Jacopo), i miei appunti li consegno da sempre a fogli sparsi, paginette vaganti. Chissà dove stanno ora, perse nel casino delle mie carte, le annotazioni che sentivo importanti quando seguivo pure io gli itinerari dell’attenzione, uguali e diversi, che assieme a Delbono e alla sua compagnia mi avevano portato a Quebec City in Canada, a Porto Alegre in Brasile, sulla piazza del Cremlino a Mosca, per squadernare al mondo titoli come Barboni e Esodo.
E chissà che in qualche cartella, nell’oscurità di qualche cantina, non ci siano ancora le righe che avevo appuntato in una remota estate 1985, al Teatro della Collegiata di Santarcangelo, quando scoprivo per la prima volta due ventenni (l’altro era Pepe Robledo, da allora sempre al fianco di Pippo) che tra una strizzatina d’occhio ai Blues Brothers e un verso di Rimbaud inventavano Il tempo degli assassini, primo capitolo di una teatrografia mondiale che dura da più di trent’anni.
“Succede che questi spettacoli li uso un po’ per guarire la vita – dice Delbono nelle pagine finali del libro – Perché mai il teatro non può diventare un percorso di gioia?”. Perché mai, appunto?
Pubblicato il 31 dicembre 2017 su “Quantescene!”, rubrica online di Roberto Canziani