Il nome Lehman Brothers lo scoprì all’improvviso anche chi non si era mai interessato di economia e finanza quando nel 2008 la banca d’affari statunitense, un colosso del settore, fece bancarotta. La più grande bancarotta che si fosse mai verificata nel paese. Fu il culmine della cosiddetta crisi dei mutui subprime, altro termine che per molti si imparò a conoscere allora, per indicare prestiti ad alto rischio finanziario. Ma questo è l’epilogo, storia ancora recente e come si dice ormai passata in giudicato. Non è questo che fa l’interesse della Lehman Trilogy che Luca Ronconi ha messo in scena nella storica sala di via Rovello del Piccolo teatro. Conta assai di più quel che c’è prima, non solo temporalmente. Prima c’è un’epopea familiare che Stefano Massini ha tradotto in una scrittura avvolgente, che esce dai canoni drammatici e progredisce in maniera non lineare, per sbalzi anche semantici (e alla fine saranno più di cinque ore di spettacolo suddivise in due parti).
La saga ha inizio a metà dell’Ottocento quando i tre fratelli Lehman, ventenni, emigrano a breve distanza l’uno dall’altro dalla natia Baviera in America. Sbarcano a New York come tutti ma è in Alabama che vanno a stare, a Montgomery. Cittadina prospera grazie al commercio del cotone che diventerà la capitale degli stati confederati durante la guerra di secessione. Eccolo infatti con una sacca in mano e accanto soltanto una valigia, il primo di loro, all’arrivo su quella che possiamo immaginare essere una banchina di Ellis Island. Lo sguardo diritto davanti a sé. Un orologio sospeso “di ferro e ghisa” si è fissato su quell’ora a suo modo fatidica, le 7.25 della mattina. E non si sposterà da lì neanche quando i terremoti della storia lo faranno scorrere da un capo all’altro della scena.
L’aspetto dell’uomo non è in realtà quello di un giovanotto ma quasi piuttosto quello di un patriarca biblico, nella statura severa di Massimo De Francovich. E qui il gusto del regista per le strutture non drammatiche, o forse si dovrebbe dire il suo interesse per la struttura dell’opera in sé piuttosto che per la vicenda, si incontra con l’impianto dato da Massini al testo, che si presenta quasi come una lunga didascalia in versi. Dove il racconto si intreccia ai sogni che diventano ossessivi incubi notturni; dove soprattutto i vivi possono convivere con i morti, svelando così un lato cerimoniale della rappresentazione. Il suo carattere per così dire postumo. Ha un indubbio respiro epico la Lehman Trilogy, a questa percezione contribuiscono anche i titoletti che introducono le singole scene, disegnati “a mano” su una parete di lato, ma la forma epica brechtiana si tiene ben lontana da questo teatro. Dato atto del senso di Ronconi per l’economia e la finanza, che l’ha portato a più riprese a misurarsi con questi temi, sbaglierebbe chi si attendesse alcunché di didattico.
Anche la scena di Marco Rossi è priva del resto di qualsiasi carattere illustrativo. Un involucro neutro, privo di colore, dove pochi sottili arredi emergono dal sottofondo e vi ritornano. Sedie e tavoli, una trave sospesa a mezz’aria dove vedremo andare avanti e indietro un funambolo. L’unico motivo scenografico in senso proprio sono le insegne della “ditta” su cui letteralmente poggiano e che vengono su a loro volta dal fondo e si innalzano verticali come elementi totemici. Il simbolo del clan.
Henry, il maggiore, è la mente, e ci tiene a farlo pesare. Emanuel il braccio, cui Fabrizio Gifuni dona un che di testarda irruenza. Il più giovane Mayer è detto Bulbe in yiddish, cioè Patata, e non è proprio un bel complimento ma il ragazzo non sembra soffrirne, con “la chiarezza ingenua dei vegetali” trova sempre il giusto compromesso fra le pulsioni opposte dei due fratelli; e poi è dotato, oltre che di un quasi istintivo intuito commerciale, anche di imprevedibili doti di diplomazia, tanto che il suo soprannome si muterà in un quasi ammirato Kish Kish (Vasa Vasa, tradurrebbe qualche siciliano). Qui è straordinaria la prova che fornisce Massimo Popolizio, con ironia e misura riveste di una sorta di levigatezza quello che alla distanza si rivela il vero uomo forte della famiglia. Ma l’intero ensemble è all’altezza dell’impresa, dai nomi che già si sono citati a Paolo Pierobon, che è Philip, il figlio di Emanuel, “macchina parlante” che prenderà in mano il gruppo mentre il manierato cugino Herbert preferirà la politica.
Henry dunque ha aperto una botteguccia col suo nome a Montgomery, Alabama. Ma appena lo raggiungono i fratelli, ecco che l’insegna nera e gialla già diventa Lehman Brothers. Vendono stoffe, poi si allargano alle sementi e agli attrezzi agricoli. Siccome sono ebrei praticanti festeggiano lo shabbat e la domenica, quando gli altri escono dalla funzione religiosa, loro sono aperti a fare affari. Quando un incendio devasta le piantagioni, anticipano la materia prima per ripartire e si fanno pagare col cotone grezzo del successivo raccolto, che poi trovano da rivendere, inventando un mestiere che non esisteva ancora. Mediatori, cosa significa? gli chiedono i futuri suoceri quando vanno a chiedere la mano delle figlie, ancora dubbiosi della solidità economica dei pretendenti. Soldi, molti soldi. Ne sono consapevoli. Baruch Hachem.
Il mestiere funziona, si moltiplicano anche gli investimenti della banca che nel frattempo hanno fondato. Ci sono anche loro nella ferrovia che attraversa da costa a costa il continente americano o in quel canale che invece taglia l’istmo di Panama mettendo in comunicazione due oceani – e negli anni a venire i loro interessi si allargheranno dal petrolio alle telecomunicazioni. Hanno aperto una filiale anche a New York che con la borsa di Wall Street si avvia diventare la capitale degli affari. Sicché i due fratelli, Emanuel e Mayer, si ritrovano da lati opposti del fronte quando scoppia la guerra di secessione. Henry, la mente, era morto qualche anno prima. Per la prima volta Lehman Brothers chiude per i sette giorni di lutto di Shivà, quando i parenti stretti si strappano il vestito e devono astenersi da ogni attività, nemmeno farsi da mangiare ma riceverlo dai vicini. Più di tutte le altre ricorrenze ebraiche che pure costellano lo spettacolo – la festa di Purim, Hanukkah, il Bar-mitzvah che segna l’ingresso nella maturità dei ragazzi – è proprio quella funebre a dettare col suo ciclico riprodursi il ritmo ondulatorio della rappresentazione. Quando muore l’ultimo vecchio dei Lehman finisce la prima parte.
Entra in scena la terza generazione. E in quel mondo fin lì tutto maschile si insinua l’elemento femminile (è Francesca Ciocchetti a dar corpo a tutte le donne di casa). È esilarante la scelta della moglie da parte da parte di Philip, ossessionato dalla necessità di tenere tutto sotto il razionale controllo della sua agenda. Siamo negli anni dell’euforia speculativa che aveva contagiato una larga fascia della società americana. Davanti a Wall Street ogni giorno un funambolo tende il proprio filo. E quel suo andare avanti e indietro è la metafora, se si vuole, della fragilità del sistema speculativo. Arriva il “giovedì nero” del 1929. Il crollo della borsa di New York con gli operatori di borsa che si suicidano uno dopo l’altro, travolti dal crollo delle quotazioni. La scena sussulta di spari. Poi la grande depressione, il New Deal roosveltiano, un’altra guerra… Quando nel 1969 muore l’ultimo dei Lehman, che un momento prima avevamo visto ballare un prolungato twist, al rituale ebraico si sostituiscono tre minuti di silenzio per tutto il personale. Si capisce allora anche da questo che le cose hanno preso un’altra piega. Comincia un’altra storia, meno interessante anche teatralmente. E dunque è giusto che a chiudere lo spettacolo siano di nuovo loro, tutti i Lehman e non la banca, in una sorta di funerea riunione di famiglia, aspettando che la storia faccia il suo ultimo giro.
© gianni manzella