C’è un buco nero sulla soglia di The four seasons restaurant, lo spettacolo di Romeo Castellucci che Romaeuropa ha portato al teatro Argentina, a qualche significativa distanza di tempo dai debutti internazionali. Per un momento ascoltiamo l’inudibile, il rumore cosmico che ci viene da un passato lontano 250 milioni di anni luce. Mentre scorrono i dati scientifici che vorrebbero assicurarci della verità di quel fenomeno.
Ma quando il sipario si apre sul palcoscenico in penombra, chiuso da tre uniformi pareti bianche, ci ritroviamo in uno spazio più familiare, lo spazio vuoto che il teatro è chiamato a riempire. Una spalliera, sul fondo, richiama un luogo quotidiano. Una palestra, o un analogo luogo di contatti fisici. E infatti a un certo momento si sentiranno anche i rumori di un palleggio, ma lontani, come provenienti da un altro tempo, un tempo parallelo o sfasato rispetto all’immagine. In una sorta di asincronia che costituisce un po’ il motivo portante se non proprio il tema (in senso musicale) dello spettacolo.
Una alla volta o a piccoli gruppi entrano dieci ragazze, vestite di grigio e azzurro di stampo egualitario, con un grembiule che annulla le individualità troppo vistose; però con una fascia rossa al braccio, allusiva a chissà quale loro associazione. Come per adempiere a un prescritto rituale, tutte si tagliano la lingua, con un gemito, poi vanno a comporre un cerchio, tenendosi per mano. Ed ecco che da quel circolo segreto escono parole che vibrano forte nella memoria. Questo è il suo giardino, era là poco fa quando passai… Sono i primi versi de La morte di Empedocle che appaiono anche proiettati sulla parete di fondo nella lingua di Hölderlin. Chi parla è Pantea, la figlia dell’arconte di Agrigento, dice all’amica appena arrivata in Sicilia da Atene di quell’uomo straordinario, il confidente della natura, il più vicino agli dèi. Vittima del suo tempo, come doveva sentirlo (e sentirsi a sua volta) il giovane poeta tedesco che vuol far rinascere la tragedia, mentre non per caso le spinte rivoluzionarie dell’epoca rimettono in circolazione un’altra delle conquiste del pensiero greco, l’idea di democrazia.
Era preda di una malattia mortale, Pantea, quando Empedocle le offrì la bevanda salutare. E sulla scena vediamo rifatto quel momento, con la giovane donna che si contorce a terra con la bava alla bocca – manifesta finzione naturalmente, la schiuma è tratta da una bomboletta. Ma in questa rappresentazione, in cui più ancora dei kalashnikov che le giovani rivoluzionarie si mettono in spalla o delle presenze animali che attualizzano il conflitto fra natura e techne, opera umana creatrice, o delle bandiere e i fazzoletti degli stati confederati nell’America della guerra civile, ciò che più appare evidente, scandalosamente evidente e stridente, è il distacco conflittuale che si produce fra i gesti e le parole. Giacché queste ultime, le parole, vorrebbero trovare una sorta di convenzionale naturalezza sulla bocca delle quattro attrici che le pronunciano senza distinzione di ruolo (sono Irene Petris, Chiara Causa e Laura Dondoli, oltre a Silvia Costa, da più tempo a fianco di Castellucci); mentre gli altri, i gesti, si compongono con lentezza in pose neoclassiche, come rileggendo su un album gli albori della danza moderna, rivisitati in maniera scolastica da “educazione delle fanciulle”, o riecheggiano un’ampia iconografia pittorica. Tanto che le parole a un certo punto se ne vanno. Letteralmente sono tolte di bocca alle interpreti per risuonare attutite in un asincrono doppiaggio da un ingombrante apparecchio radiofonico. Incomincia il morire. E allora le ragazze si spogliano reciprocamente degli abiti, in un abbraccio collettivo, prima che un gesto imperioso mostri a ciascuna la via dell’uscita, d’un tratto consapevole della sua nudità. Vera e propria cacciata da quel Paradiso che dopo tutto è la scena.
Poi il sipario torna a chiudersi. Arretra e di nuovo avanza per portare allo scoperto e di nuovo nascondere, come un’onda, i detriti lasciati dallo spettacolo e il corpo di un cavallo abbattuto, immagine ossessiva che si ripropone negli spettacoli della Societas Raffaello Sanzio. Un accecante lampeggiare, accompagnato da scoppi sonori violenti dà inizio alla seconda parte, molto più breve e soltanto visiva, nell’evocazione coinvolgente dell’eruzione vulcanica in cui l’eroe tragico scompare, per unire con la morte la sua singolarità all’infinitezza della natura.
E il ristorante Quattro stagioni? Ci informa l’artefice che esiste davvero, sulla 54ma strada di New York, e una volta commissionò a Mark Rothko una serie di tele che poi l’artista non volle più consegnare, ora sono alla Modern Tate di Londra. Metafora fin troppo palese di una condizione dell’artista, di una sua volontà di sottrarsi allo sguardo altrui, per insistervi ancora. Siamo dalle parti de Il velo nero del pastore, anzi ora dichiaratamente all’interno di un “ciclo” aperto da Sul concetto di volto nel figlio di Dio. Non a caso The four seasons restaurant finisce là dove l’altro iniziava, nella vorticosa tempesta di una materia acquosa che riempie con fragore tutto il boccascena, soffocando la vocalità di un Lied. Come se da quel gorgo l’artista non riuscisse a venir fuori. Non lasciarmi, ti supplico – dicono le parole che ora si stampano sul sipario.
Siamo di nuovo sulla soglia di un buco nero, su quella linea di confine tracciata dalle quattro dimensioni che si originano dall’evento. E per qualche motivo torna in mente il sandalo lasciato da Empedocle dietro di sé prima di scomparire sull’Etna.