Quando il teatro è piacere. Perché non sempre il teatro è piacere, può costare allo spettatore più di una serata persa. Ma qui si respira un’aria diversa, lo si percepisce subito. Sarà l’atmosfera pop e un po’ retrò che mette di buon umore. La musica allegra, che vien voglia di ballare. Le immagini dei titoli di testa di vecchi film d’azione che passano su uno schermo laterale. Le grandi fotografie montate sui pannelli disposti frontalmente a dividere per tutta la larghezza lo spazio scenico, che fanno Hopper ma sono i negozi intorno al Prater, il teatro berlinese diretto da René Pollesch. Dietro cui si indovina la vita della scena, il brusio delle interpreti, le loro risate e qualche tintinnio di bicchieri. Tanto che sembra per un momento sopportabile anche la calura della palestra dove è allestito Tod eines Praktikanten, a Santarcangelo.
La vita, ecco. Che d’improvviso ci viene davanti. Senza una vera transizione, senza che si spengano le luci o cessi la musica. Senza sipari che si aprano o chiudano a ritagliare il tempo extraquotidiano dell’evento teatrale. Come un gorgo o un flusso in cui si finisce dentro. È un dialogo fitto che inizia al di là di quei colorati pannelli divisori, ma ripreso in video e proiettato in tempo reale sullo schermo laterale, secondo un metodo operativo che è caro al regista da qualche anno a capo della struttura sperimentale della Volksbühne di Frank Castorf, che di per sé non è poi il massimo dell’ortodossia. In Pablo in der Plusfliale, visto qualche anno fa ad Avignone, l’azione si svolgeva quasi per intero in uno spazio chiuso, all’esterno del gazebo esagonale che accoglieva il pubblico, e solo per pochi momenti gli attori uscivano fuori, in vista, su un palchetto decorato con lucine e paillettes. Come là, ritornano ossessivamente i temi cari all’artefice, roba forte, sesso ed economia, politica e mercato, verità e finzione, pratiche e prodotti artistici, centrifugati nell’universo visivo dell’immaginario collettivo contemporaneo. Perché siamo qui per celebrare, come recita il titolo, la morte di uno stagista, di cui le immagini ci mostrano la sagoma disegnata al suolo, come un morto ammazzato per strada. O la vittima di un incidente sul lavoro. Di questo in fondo si parla, di lavoro precario, o meglio: di quella generosa massa soprattutto giovanile disposta a lavorare per niente, pur di esserci, in un ambiente artistico e alla moda. Senza la quale il sistema non starebbe in piedi. E infatti non a caso il primo nome su cui si incaglia il dialogo è quello di Wolfgang Tillmans, celebrato fotografo tedesco che ha trasferito il proprio atelier a Londra forse anche per godere di qualche maggiore libertà contrattuale.
Ma ciò che conta è come se ne parla, che è poi quel che sempre conta in teatro, cioè il gioco delle tre protagoniste, che sono le bravissime Inga Busch, Christine Gross e Nina Kronjaeger, alte e forti, di una bellezza non convenzionale. Eccole, in quello stretto retroscena, investite dall’artificiale tsunami prodotto da una macchina del vento, evocare viali del tramonto e ultime parole come Rosebud, mentre spargono neve altrettanto finta. Irrompono di qua, sempre seguite da una videocamera tenuta a mano che ne ripropone l’immagine da un’altra angolazione, per la confusione dello sguardo. Indossano impaccianti abiti da sposa firmati dalla popolare catena H&M, che recano vistosamente stampati i costi, così come gli oggetti di scena, perché chi sovvenziona ha diritto di saper come sono stati spesi i soldi pubblici. Inerpicate su tacchi altissimi, si arrampicano su una scaletta per sostituire le immagini fotografiche. Allestiscono il set per la ripresa di uno spot. Giocano a hockey con il libri di una collana tascabile. Mentre la musica di Queen o Electric Light Orchestra procura di mantenere vivo quel clima di ballabile piacevolezza.
Soprattutto dialogano fra loro, a un ritmo implacabile. Perché non si tratta di un happening, sia chiaro. Il testo scritto durante le prove (e già ce ne sarebbe abbastanza per mettere in questione il concetto di autore, al di là della drammaturgia firmata da Aenne Quiñones, Pollesch se ne sottrae) è stato fissato alla fine in un intangibile copione che una inflessibile suggeritrice, al loro fianco, controlla parola per parola, se si sbaglia si deve ripetere. Ed è un testo che fa i nomi, come avrebbe detto Pasolini, anzi li trita in un condensato di scandali bancari e affare Litvinenko, di tormentoni su Sigourney Weaver che da miliardaria fa l’autistica e Angela Merkel che è cool, vecchie star del cinema e attricette che hanno partecipato al trailer di un film di James Bond, con giochi di parole che purtroppo vanno persi nella traduzione per sottotitoli.
Quello di Pollesch è un teatro isterico patologico esistenziale. Divertentissimo perché la comicità è non solo il collante delle azioni ma un partito preso, un modo di guardare il mondo. Ma chi è capace oggi su una scena di usare parole come “vecchio proletariato diventato socialdemocrazia”? E non in un empito di nostalgia, non per un’istanza ideologica, ma per buttare nella discussione il fatto che “loro non ti vogliono”, vogliono la rappresentazione, vogliono adattarsi al gusto di merda che li lega al mondo occidentale. Che poi è il gusto prevalente di quella società maschile bianca eterosessuale contro cui si posiziona non solo Pollesch ma l’intero collettivo artistico della Volksbühne im Prater, in questo caso significativamente tutto femminile. (E il neoliberismo? La globalizzazione? Certo, se vai a grattare ci sono anche questi, ma a rassegnarsi ai clichè non c’è da guadagnarci).
Seppellito lo stagista con un antico rituale africano, sulle note di Paul Simon, resta finalmente un dubbio. Resta il senso di un teatro capace di fare un po’ di confusione, che vuol dire rimescolare idee e sentimenti troppo sedimentati. Resta il messaggio, se si perdona il termine d’altri tempi, che solo una prospettiva parziale permette uno sguardo oggettivo.