Alla fine, come nella prima edizione con lo straordinario Sound of silence di Alvis Hermanis, Napoli teatro festival gioca la sua carta vincente. Lo spettacolo capace di riconciliare con l’idea stessa di teatro, di cui mostra una magistrale prova. E non ci si poteva attendere di meno, posto che si parla dell’ultima creazione di Christoph Marthaler, quel Riesenbutzbach che ha debuttato di recente ai Wiener Festwochen. E che ancora una volta ci pone di fronte alla meraviglia di quel che altre volte si è chiamato il “Marthaler touch”, la sua capacità di cambiare il nostro sguardo sulle cose per profondità e leggerezza, intrecciando costruzione testuale e drammaturgia musicale in un continuo di corto circuiti mentali.
L’inizio è lento, rarefatto. Sembra non succedere nulla, come sempre nel lavoro del geniale artista svizzero. Due ragazze prendono posto nel grande ambiente disegnato da Anna Viebrock, spazio preparato da cui scaturisce la costruzione drammaturgica. Altre donne le raggiungono, giovani e no, vestite per lo più in maniera dimessa. Restano immobili, sedute ai posti che si sono assegnate. Ogni tanto un sospiro, una gamba che si solleva in una sorta di straniato passo di danza. Per darci il tempo di posizionare lo sguardo, di trovare un nostro posto in un mondo che sembra attenderci e tuttavia vive anche senza di noi, di abituarci alla sua luce grigia e alle facce dei suoi più abituali frequentatori.
Il luogo è uno stanzone dalle pareti altissime, rischiarato da un soffitto a piastrelle vetrate. Ingombro di cose. Vecchi mobili senza pretese di design, il banco di una reception sul fondo. Istituto per l’industria della fermentazione, sta scritto a lettere marmoree sul frontone della sala. Ma sembra piuttosto la bottega di un rigattiere galattico, sarà che poi quei mobili di cui abbiamo ascoltato anche una sorta di genealogia familiare li vedremo portar via dagli inservienti, venduti ormai o pignorati. Però qualcosa non torna nell’apparente realismo dell’ambientazione, quell’interno rivestito da carta da parati è anche un esterno su cui si affacciano balconcini e lampade stradali, si allineano vetrine e porte col numero civico, si aprono serrande di garage da cui irrompe il rumore di un motore che stenta a partire.
Un luogo di transito. Transitorio e metamorfico è anche il ruolo che vi assumono i quindici interpreti, è entrato intanto in scena anche un numeroso gruppo maschile. Uomini ingrigiti dalla vita, dagli abiti tristi. Anche se i ruoli appaiono fluidi, instabili, contano di più le situazioni incarnate dagli attori, non a caso in scena con il proprio nome. Un uomo che attaccato al telefonino afferma di aver ucciso tutta la famiglia per non ammettere di aver perso tutti i soldi. Un figlio e una madre che non si sono mai capiti, lui è francese. Una donna che rivendica la necessità del consumismo. Un microcosmo che, a differenza di altre volte, non costituisce un campione sociologico omogeneo, com’era per la classe dirigente di Stunde Null, o gli Spezialisten di un altro lavoro, il gruppo di burocrati e maneggioni che in Groundings accompagnavano il naufragio economico della Swissair. Qui il disastro economico è diventato globale, anche se ciascuno cerca di difendere l’illusione di un residuo privilegio, attingendo anche alle parole di Seneca e Kant. La crisi non si avverte tanto, cercano di convincersi. In fondo abitiamo ancora in centro. Il denaro deve lavorare. Possiamo rinunciare al benessere ma non al consumo. Ma alla richiesta di un prestito l’impiegato dietro il banco risponde invariabilmente che la cassaforte non si apre.
Quello che va in scena invece è lo scorrere del tempo. Il tempo di una attesa che rischia di essere permanente come la colonia evocata dal sottotitolo. Un tempo da condividere, da riempire con azioni e parole e soprattutto di canti corali, elemento di coesione del gruppo. Un duetto di Monteverdi. I Lieder di Schubert e Schumann, corali bachiane. Ma anche Staying alive che invita tutti al ballo. Mentre si alzano e abbassano le saracinesche dei garage del titolo, a rivelare affollati interni domestici, e si illumina un lampione per l’inevitabile Lili Marleen. Fino a quell’ultima sussurrata O welche Lust del Fidelio di Beethoven che li accompagna in una reiterata sfilata, indimenticabile suggello della serata.