Labirinti di tempo. Vengono in mente i “sentieri che si biforcano” di cui parlava un folgorante racconto di Borges. Siamo invece al teatro Argentina dove RomaEuropa festival ha portato l’ultima altrettanto spiazzante creazione di Mundruczó Kornél, geniale regista ungherese mai uguale a se stesso, capace com’è di cambiare ogni volta lo stile della lotta, per dirla con il vecchio Bertolt Brecht. C’era stata prima la trilogia allestita con la sua compagnia, il Proton Theatre, iniziata dal disturbante Frankenstein-Project e conclusa dallo sconvolgente Disgrace che ribaltava il romanzo di J.M. Coetzee, e in mezzo a far da tratto d’unione quell’altro poco pacificante Hard to be a god visto in estate alla Biennale teatro di Venezia. E in parallelo i suoi film, la cruda parabola familiare di Delta o la spiazzante sinfonia di White God, che parte come un piccolo dramma familiare e vira d’improvviso verso una vera e propria tragedia di vendetta elisabettiana.
Pieces of a woman, lo spettacolo presentato a Roma dai polacchi del TR Warszawa, si innesta piuttosto sulla stessa linea del più recente Imitation of life, la rinuncia apparente alla violenza e lo spostamento altrettanto apparente su vicende familiari ma in realtà permeate da contraddizioni e conflitti aperti nella società. Come, in Imitation of life, la questione dell’identità degli zingari ungheresi messa alla prova dallo sfratto subito da un’anziana donna. Non casualmente c’è dietro in entrambi i casi la mano di Kata Wéber, sceneggiatrice e drammaturga e all’occorrenza anche attrice sulla scena di Mundruczó, oltre che partner nella vita del regista. Qui si gioca sui conflitti determinati da un evento drammatico, la morte della figlia durante il parto che la madre aveva voluto ostinatamente svolgere in casa.
Dalla pièce di Kata Wéber, su cui si allunga anche qualche riverbero autobiografico, Mundruczó ha poi tratto un film di successo, con lo stesso titolo, presentato l’anno scorso a Venezia. E indimenticabile, per chi l’ha visto, è la lunga sequenza iniziale del travagliato parto, più di venti minuti con la camera incollata alla donna mentre monta l’angoscia della situazione. Parte da questo concitato momento anche lo spettacolo teatrale, che vediamo comunque filtrato dall’occhio di una videocamera, tutto si svolge al di là di una parete che è anche lo schermo su cui si proiettano le immagini. Fino all’esplodere in sala di sirene e lampeggianti colorati, correlativo dell’inutile arrivo di un’autoambulanza. Dimenticare il film, dimenticare la sua bellissima e premiatissima protagonista Vanessa Kirby – è tuttavia il primo imperativo che lo spettacolo impone allo spettatore. Basta un’ambientazione diversa e siamo precipitati in un’altra realtà. Là era l’east coast americana, con l’inevitabile happy end o quasi; qui la Polonia dagli incrollabili valori cattolici.
Lo schermo si solleva, al di là si rivela lo spaccato di un’altra casa dove un manipolo di operai sta dando un’ultima sistemata a una sorta di trasloco, mobili da disporre, piante da spostare – la scena è disegnata da Monika Pormale, l’artista lettone conosciuta al fianco di Alvis Hermanis al teatro di Riga. Sei mesi dopo, dice la didascalia proiettata. L’anziana padrona di casa intanto è alle prese con un referto che le lascia poche speranze, sta perdendo velocemente la memoria. E infatti non ricorda dove ha messo le chiavi, si è dimenticata di mettere in forno l’anatra preparata per il pranzo… Perché si prepara una riunione di famiglia, un po’ anche un involontario processo alla figlia, la donna che ha perso la bambina e però non rispetta le convenzioni del dolore pubblico. Potrebbe essere T.S. Eliot, con la casa depositaria dei riti sociali che ne garantiscono l’ordine, i segreti gelosamente difesi, i piccoli orrori quotidiani, se non fosse per l’orgogliosa rivendicazione della sua separatezza da parte dell’est del mondo anche parlando di musica rock. Arriva la disinibita cugina avvocato, che ha in mente di avviare una causa per ottenere un indennizzo. E la sorella che teme per la carriera politica cui aspira, dalla parte della vera Polonia, quale sia lo si capisce bene. Ed è un conflitto duro quello che si produce fra le quattro donne, fra momenti di tenerezza e l’emergere di passati rancori e ferite che si riaprono – giacché i due uomini, i mariti delle sorelle vanamente arroganti, sono figure marginali, impelagati con la droga. Siamo riusciti a parlarne senza piangere, dice lei. Ma è un dolore che non si cura, non passa col tempo. È questo che non capisce chi le sta intorno.
Fino al culmine emotivo che si produce quando la protagonista, rimasta sola, si infila sotto la doccia dialogando con un pupazzetto come faceva da bambina. Ricordi ancora che occhi aveva tua figlia? lo sente chiedere. Poi tutto si confonde. La scena si oscura e si precipita nell’incubo. Dal lato opposto della scena avanza carponi un bambolotto dalla grossa testa luminosa… Finisce che si ritrovano tutte insieme a cantare, come in altri tempi. Felicità è un bicchiere di vino con un panino la felicità. Il vecchio brano di Al Bano e Romina che già in precedenza aveva fatto ballare le due sorelle ora diventa il terreno possono ritrovarsi.
O forse no. Forse è proprio a raffronto del film successivo che il lavoro teatrale svela una delle sue chiavi. Storie diverse si dipanano da un medesimo punto di partenza, nel giardino dei sentieri che si biforcano qual era il mondo per lo scrittore argentino. Basta un passo di lato e ci si ritrova in un’altra realtà. E chiama in causa la responsabilità delle scelte, l’errore che qualsiasi scelta prospetta. Dietro il velo della commozione, Mundruczó lascia trapelare qualcosa di epico, in fondo davvero brechtiano. Nella casa ormai vuota e buia, la madre dà fuoco al referto che non ha voluto mostrare alle figlie. Labirinti di tempo.
© Gianni Manzella