Robert Wilson o l’eclissi del tempo. A un certo momento di Einstein on the beach, questa suggestione prende figurativamente corpo, cioè diventa immagine. Un disco nero si sposta lentamente sul fondo fino a coprire la sagoma circolare di un grande quadrante privo di lancette che incombe sull’aula di un onirico tribunale. Mentre, dai lati, oscilla l’ago di una bussola e su un altro orologio più piccolo le lancette corrono impazzite nel senso contrario. Siamo dunque in un mondo uscito fuori dai suoi rassicuranti riferimenti temporali. Fuori dai propri cardini avrebbe detto Amleto, qualche secolo prima che la scienza imponesse un po’ di relatività alle cose umane.
Disfare il tempo. Trarlo fuori dall’esperienza quotidiana che l’ha reso impercettibile e ricomporlo in una nuova dimensione percettiva, fino a renderlo quasi immobile davanti agli occhi dello spettatore. Sembra questo l’imperativo che ha guidato la ricerca dell’artista di Waco, Texas. Di cui la gestualità lenta dei suoi attori, capace appunto di tradurre il movimento in esperienza del tempo, è solo l’effetto più superficiale.
Einstein on the beach può essere considerato a buon diritto un capolavoro del ventesimo secolo. E Robert Wilson è certo uno degli artisti che maggiormente hanno contribuito a cambiare l’idea del teatro, negli ultimi quarant’anni, con il fascino visivo dei suoi grandi spazi, il lavoro formale sul gesto dei suoi attori. Lo sperimentare come i corpi nello spazio possano interagire con le parole di un testo, senza che ciò si traduca mai in interpretazione, cioè sentimento o emozione. Ciò che in seguito si è spesso tradotto in un sapiente manierismo, il piacere della visione di un universo compositivo immediatamente riconoscibile, tanto noto da non sembrar richiedere alcuno sforzo di comprensione ulteriore, vi è qui esposto allo stato nascente, per così dire. Ancora capace di sorpresa.
Ma è anche, Einstein on the beach, la testimonianza di uno straordinario periodo artistico, una vera e propria belle époque del teatro verrebbe da dire. Anni in cui era normale incontrare sulle scene le prodigiose creazioni scespiriane di Carmelo Bene… Il sudd esilarante e disperato di Leo e Perla… Luca Ronconi che a Prato impiantava uno straordinario laboratorio che intrecciava Hofmannsthal e Pasolini sulla traccia de La vita è sogno calderoniana… E a Venezia, in quella metà degli anni settanta che consacrava Kantor e già preannunciava il genio di Pina Bausch, un altro laboratorio internazionale presentava l’opera composta da Wilson insieme a Philip Glass.
Quasi cinque ore di spettacolo che hanno perso ben poco della loro capacità di fascinazione, ora che Einstein on the beach riappare sul palcoscenico del teatro Valli, a Reggio Emilia, con altri interpreti ma un’immutata energia, a vent’anni di distanza dall’ultimo riallestimento. Come resistere del resto all’accattivante minimalismo delle due presenze femminili che sono già lì, in un angolo del palcoscenico, all’ingresso in sala con le luci ancora accese, fissate in una posa innaturale mentre snocciolano un testo di poetico nonsense. E intanto nella buca dell’orchestra, senza quasi che ci se ne accorga, va ingrossandosi il coro che canta una sequenza aleatoria di numeri sulle note dolcemente seriali di Glass. Tutti vestiti uguali, gli interpreti, una camicetta bianca, i calzoni grigi tenuti su dalle bretelle.
Ed ecco l’aprirsi del sipario su uno di quei mondi che sono diventati la sigla del dispositivo visivo del maestro texano – la sua è infatti davvero una nuova cosmologia. Spazi vuoti dai colori cangianti che inquadrano un paesaggio in continua metamorfosi. Figure che si stagliano in controluce sui fondali luminosi. Qui domina al centro la sagoma di un traliccio, da cui un ragazzo lancia aeroplani di carta. Un giovanotto dal giubbotto rosso traccia nell’aria misteriosi calcoli. Una danzatrice si muove con gesti ripetitivi sulla musica non priva di un’eco romantica, suonata dal piccolo ensemble del compositore. Ma memorabile è soprattutto l’ingresso ripetuto di una locomotiva a vapore che sbuffa fumo e scompare nel buio.
È la prima delle tre scene che si ripetono, variate in un gioco combinatorio, nel corso dello spettacolo, intervallate dai knee plays, intermezzi o giunzioni in cui fanno ritorno le due presenze femminili dell’inizio, una bianca e una nera. Ecco infatti comporsi a vista la complessa struttura di pedane, banchi e tavoli che evocano l’affollata aula giudiziaria da cui parlano due giudici imparruccati – e vi comparirà anche un grande letto, a ribadire il carattere di sogno di questa scena. Mentre il treno può prendere la forma di una palazzina e sarà una scena vuota e bianca ad accogliere le corali coreografie di Lucinda Childs e il passaggio in cielo di un’astronave che da ultimo vedremo anche dall’interno, una brulicante parete di tubi metallici su cui sono tracciate geometrie luminose, fra Metropolis e l’Odissea di Kubrick.
E Einstein? C’è, naturalmente. Sia pure nei panni di un violinista che esegue i propri assoli su una sedia issata al di sopra dell’orchestra. O celato nei richiami alle sue teorie scientifiche (un ascensore che si muove su e giù…) che si possono cogliere in più momenti. Ma Einstein on the beach non ha evidentemente una volontà narrativa, né tanto meno biografica. Ci si coglie piuttosto, alla distanza, la tensione verso il “grande spettacolo americano” che trae ispirazione e prende commiato dal musical, come poi farà un altro dei capolavori di Wilson, Black rider, realizzato insieme a Tom Waits e William Burroughs.
© gianni manzella