È na passione, cchiù forte ‘e na catena – dice la nota canzone che in sottofondo accoglie gli spettatori del teatro Elicantropo. Come a indirizzare l’ascolto verso un universo partenopeo. Ma non bisogna farsi trarre in inganno, non è la Napoli solare dello stereotipo melodico quella che si affaccia nel disturbante Scannasurece di Enzo Moscato che Carlo Cerciello ha messo in scena nella sala di vico Girolomini, cuore storico di Napoli. Un po’ cerimonia stregonesca, un po’ meditazione sullo spirito dei tempi sotto il travestimento della commedia, poco o nulla concede all’immagine oleografica e per lo più consolatoria della città. Né bisogna farsi distrarre dalla presenza di un personaggio, anzi addirittura un Personaggio con la maiuscola, secondo la versione poi pubblicata a distanza di tempo e non senza ripensamenti.
Scannasurice è uno dei primi testi scritti per il teatro da Moscato, e reca fortemente il segno impresso dal momento della creazione, nei primi anni successivi al terremoto del 1980. Di cui coglie l’effetto disgregante, piuttosto che quello rigeneratore di energie. Un letterale sfaldamento, che si riflette anche nella lingua. Come se quella lontana nuttata eduardiana fosse ormai destinata a non passare più. E che oggi diventa forse metafora di una più generale disgregazione sociale, se non di una vera e propria mutazione antropologica. Non è un caso che abbia attratto l’attenzione di un artista come Cerciello, capace come pochi altri di confrontarsi con i nodi della storia del paese nostro, con ciò che lega il presente a un passato più o meno recente. Dove l’Italietta postfascista si lega a quella berlusconiana, rappresentata in passato dal regista napoletano nello stile di un Satyricon contemporaneo, per tornare poi a volgersi agli anni 70 delle stragi impunite e della violenza terrorista, riletti come un incubo notturno nel Macbeth scespiriano.
Ma si diceva della lingua e di una scrittura che sotto il travestimento della “prosa”, il mantenimento cioè di certi suoi elementi formali, è già al di là dei padri, da Scarpetta allo stesso Viviani. Una lingua aperta alla contaminazione, che danza in maniera vitale con le parole per ricomporre un universo suo proprio. E non a caso si esprime nella forma pre-drammatica del monologo, che impegna l’interprete, qui una bravissima Imma Villa, a innescare un dialogo continuo con lo spettatore.
Chi è quest’altra creatura che ha perduto il sonno ma non la fantasia inquieta, tocca scoprirlo un poco alla volta, nelle giravolte fisiche e verbali che si concede. In mutande e canotta, poi rivestite di una pelliccetta e mezzi guanti, i capelli nascosti sotto una cuffia a rete che contribuisce per la sua parte a rendere meno definita l’identità sessuale. Sta imprigionata in una sorta di gabbia lignea, a più piani, che definisce una serie di loculi accostati, dove è costretta a muoversi carponi, a starsene rannicchiata o in ginocchio, inseguita dalle luci che quasi impercettibilmente si spostano per rischiarare solo una zona limitata dello spazio (la scena è disegnata da Roberto Crea). Gioca, fa del teatro con una spada di legno che rivoltata diventa anche una croce, appende a un filo le carte pescate nel mazzo dei tarocchi, tira fuori un ombrellino quando si rivolge allo studente eletto a ipotetico oggetto del desiderio.
Il racconto affonda in una Napoli popolata di munacielli, di popolari figure protettrici della casa, di surice chiamati per nome ma che possono anche finire mangiati; una Napoli concreta nella sua topografia, evocata quasi strada per strada, quanto fantastica, o fantasmatica. È una cupa réverie che usa quelle storie di veleni e pratiche magiche come una trama, alla lettera, su cui tessere un delirante universo parallelo.
Un momento di buio riempito da un’aria della Bohème introduce uno slittamento dell’immagine della protagonista, che appare incorniciata dentro un quadro di lumini, il capo coperto da un panno azzurro come l’Annunciata di Antonello che sta a Palermo, a palazzo Abatellis. Ma la sua liturgia offre come soluzione il curaro, a uomini e topi, qualche goccia nell’acqua pubblica. Siamo troppi, dice. E tornerà quest’immagine verso la fine, quando un’altra aria pucciniana, la più celebre di Madama Butterfly, s’interpolerà fra le musiche di Paolo Coletta come correlativo sonoro della giapponeseria di cui si ammanta l’ultimo sogno della protagonista. Prima che un’altra vestizione le restituisca un’identità, la sola che possa trarla fuori dalla sua gabbia. Sulla strada. Una maglia rossa che lascia scoperte le gambe, la parrucca, le scarpe col tacco alto…
La cerimonia sta per concludersi. Cerciello coniuga qui i due finali scritti da Moscato in momenti successivi, il primo nel 1982 e l’altro su impulso di Annibale Ruccello che ne fece la regia un paio d’anni più tardi. Di una morte simbolica comunque si tratta, nel segno di un pessimismo che lascia poche vie di fuga.
© gianni manzella