C’è una sorta di ossessione linguistica nei testi di Jean-Luc Lagarce. Un tira e molla grammaticale. Un rigirare intorno alle parole di chi le cose non sa dirle, non è sicuro di come dirle, appena le ha dette vorrebbe forse subito ritrattarle. Che rende frammentaria la comunicazione e lascia molto spazio ai non detti.
Il drammaturgo francese morto nel 1995 di Aids, meno che quarantenne, in patria è da tempo un autore di culto, assai rappresentato. In Italia è ancora poco conosciuto, ma è cominciato un veloce apprendistato. Luca Ronconi ha appena debuttato con uno dei suoi testi più impegnativi, il quasi profetico Giusto la fine del mondo, dopo che già al Piccolo teatro di Milano era andata in scena la farsa tragica de I pretendenti. E Ubulibri pubblica un primo volume dei suoi testi teatrali, a cura di Franco Quadri, mentre Marinella Manicardi si misura da regista con il curioso galateo in forma di monologo che ha titolo Le regole del saper vivere nella società moderna.
Giusto la fine del mondo è all’apparenza il racconto di un nostos. Un ritorno a casa. Il protagonista, uno scrittore trentenne, torna in famiglia, a sorpresa e a distanza di molti anni, per annunciare la propria morte prossima. E le molte corrispondenze biografiche potrebbero facilmente portare a leggere nel lavoro una confessione dolorosa quanto personale. Con, in più, la consapevolezza immediata per lo spettatore che di uno sguardo postumo si tratta. Un guardar gli altri, il resto del mondo, dopo la morte, come dice il testo. E infatti la scena su due livelli disegnata da Marco Rossi in vari toni di grigio lascia in primo piano una sorta di purgatoriale spazio neutro, riservato a lui solo, mentre più dietro il sollevarsi di un sipario rivela il teatro della memoria, o del sogno, quasi schiacciato bidimensionalmente. Un vano che si apre nel taglio fra due pannelli. Un paio di poltrone, un tavolo e qualche sedia. Quel che basta a suggerire un’idea di quotidianità.
Un calo di luce accompagna il cambio a vista di posizione degli attori, nel succedersi delle scene scandito anche dalla proiezione del loro numero più in alto, sull’arco scenico del Teatro Studio trasformato in sala all’italiana, come una didascalia, a dare un che di distanziamento brechtiano all’azione negata. Successive formalmente ma intercambiabili in maniera combinatoria, le scene. È che il tempo cronologico si è ormai smarrito, si naviga appunto fra sogno e memoria, fra passato e futuro prossimo, nell’evocazione di una morte annunciata come prossima e già avvenuta. L’azione si svolge nell’arco di una giornata che potrebbe anche essere lunga un anno.
E questa sospensione, questa uscita dalla freccia del tempo si riflette anche nel tono teatrale della recitazione, ancor meglio lo si potrebbe definire iperquotidiano. Cioè di esasperata naturalità, a tratti formale e sommessa ma via via più urlata fino allo scoppio emotivo (accanto al protagonista Riccardo Bini si muovono soli o in gruppo Melania Giglio, Pierluigi Corallo, Francesca Ciocchetti, Bruna Rossi).
Ma l’uomo che ricompare così a distanza di tempo è anche un altro, uno straniero. Forse lo è sempre stato, per una sua insanabile diversità. Capace, grazie a questa distanza, di stanare le debolezze nascoste dei componenti di quel microcosmo familiare. Di farne emergere, come per un teorema pasoliniano, tutte le rabbie e i rancori, tutte le insoddisfazioni. Non un vuoto di sentimenti ma un eccesso, come ben presto si capisce. Un fiume sotterraneo che non trova sbocchi ed esplode in recriminazioni e accuse reciproche. Lui, d’altra parte, ha scelto in fretta di tacere. Di mettersi semplicemente in ascolto, rigirandosi in poltrona per maggiore imbarazzo dell’interlocutore costretto al monologo, a scoprirsi sempre più a ogni passo. E tacendo uscirà di scena, portando indietro con sé il peso di una rivelazione ormai superflua.