La strana parola di autodramma accompagna da molto tempo il lavoro del Teatro povero di Monticchiello. Vuol dire non soltanto che lo spettacolo che va in scena ogni anno in piazza, d’estate, è ideato scritto e interpretato dalla gente del paese ma che essa ne è anche l’oggetto. Il tema. La trama drammaturgica. In una vera e propria autobiografia collettiva, costruita per approssimazioni successive, da quando, una quarantina d’anni fa, decisero di mettere in piazza letteralmente i fatti loro, la propria vita reale. Contadini o no, un titolo di quegli anni, sintetizzava perfettamente il dilemma dell’identità in bilico, e del che fare, in un momento in cui era fortemente sentito il rischio dell’isolamento e dello spopolamento del paese. Questo rito collettivo si è ben presto trasformato in uno strumento di analisi della realtà sociale e culturale della comunità, affrontando di volta in volta episodi storici del passato o problemi civili del presente. Qualcosa di più di un esempio di teatro popolare, che pure da queste parti è tradizione ancora viva. Quel che forse traduce nel presente con più scientifica precisione il senso e la necessità dell’antica tragedia greca.
Lo spettacolo di quest’anno si intitola Il paese dei b(a)locchi e dietro l’ovvia, evidente citazione collodiana porta il segno di una perdita, una sottrazione. O forse una mutazione genetica, che rischia di cambiare il dna dell’antico borgo della Val d’Orcia. Lo dice la metafora ossessiva della prova d’orchestra che non si può fare, giacché dagli strumenti non esce più il suono. La consonanza di ieri è perduta. E naturalmente qualcuno grida al boicottaggio, ora che c’è da accogliere il Salvatore. I suoi accoliti sono già lì, a promettere grandi opere, un ponte che arrivi direttamente in Val Padana e altre meraviglie.
Non stupisce allora che la rappresentazione prenda la piega del Sogno di una notte di mezza estate. Di questo infatti si tratta. E se confusione c’è, non è tanta di più del prototipo scespiriano. C’è la cornice, più o meno favolistica, in cui si inscrive il presente dell’azione, l’inaugurazione di una mostra dedicata alla civiltà contadina che ha trovato l’autorevole avvallo di un creativo Ministero per l’economia della salvezza, convintosi dell’utilità politica di dare lustro alla “piccola Italia”. E c’è la farsa che si scatena quando entra in scena la litigiosa clownerie dei funzionari ministeriali sempre attaccati ai telefonini e intenti a rinfacciarsi e ricattarsi a vicenda a proposito di cucuzze di euro non proprio limpidamente lucrate. E c’è infine lo slittamento onirico nel mondo magico della fiaba, il piccolo mondo antico di Collodi. Il pinocchietto che era uscito dalla valigia dell’uomo che si è dato il compito di conservare i reperti della civiltà contadina, il burattino dal lungo naso si è trasformato in presenza viva, che chiede insistentemente di poter diventare un uomo come tutti gli altri. E alle sue spalle, come evocata in una cerimonia sciamanica, prende corpo la fiaba, non più irreale della congrega governativa che fa il controcanto. Una invecchiata fata turchina. Mastro Geppetto col suo ciocco di legno parlante. Il gatto e la volpe che promettono la moltiplicazione dell’oro in campo dei miracoli, pari pari ai promotori finanziari della contemporaneità.
Perché l’assunto è chiaro, a proposito di paese dei balocchi. E come dargli torto.
Dietro ci sono i temi che ritornano costantemente nell’auto-riflessione del TpM, quelli stessi che sono all’origine della sua nascita. E l’urgenza di non disperdere il patrimonio culturale che il teatro ha fatto affiorare. E dunque di trasmettere alle generazioni più giovani il compito di mantenere vivo lo sforzo creativo di chi le ha precedute. Li vediamo tutti lì in scena, i ragazzini del paese, raccolti intorno all’uomo che gli spiega cos’è una sgorbia. Senza nessuna concessione alla retorica della piccola Italia. Dalla memoria delle lotte contadine riaffiora un canto a dire che nostra patria è il mondo intero.