Questo è teatro, come ci si poteva aspettare e prevedere. Diceva più o meno così l’assertivo titolo che una trentina d’anni fa ci aveva fatto conoscere Jan Fabre, in una lunga notte d’estate terminata solo con le prime luci dell’alba. Non lo conoscevamo, il ventiquattrenne artista di Anversa, del quale le note biografiche accreditavano soprattutto solitarie performance di stampo duchampiano. Ma quelle otto ore passate in compagnia dei suoi otto attori, impegnati in azioni ripetitive che si dilatavano a volte fino allo sfinimento degli attori, furono una rivelazione.
Questo è teatro, viene da ripetersi ora davanti a quest’altra performance di durata inusuale, Mount Olympus, arrivata qui grazie al festival di Romaeuropa. Giacché l’attenzione calamitata proprio dalla durata, le sue ventiquattr’ore ininterrotte dalle sette di sera del sabato alla stessa ora del giorno dopo, se rischia di trasformarlo in “evento”, non fa tuttavia dimenticare a chi ha accettato di condividere per intero quel tempo con i ventisette interpreti che l’oggetto è il teatro – non l’evento che è il contrario del teatro. Gioioso tragico ironico acido sognante enigmatico eccessivo, tutto quel che volete o tutto quanto insieme tranne che noioso. Di cui il tempo, quello stare lì e ora, e non altrove, è forse l’elemento più distintivo rispetto ad altre arti. E da Wilson a Brook o Ronconi ne abbiano avuto la misura nei decenni passati.
Sono dunque le sette della sera e sul palco del teatro Argentina, racchiuso da un grande schermo cinematografico sul fondo e quattro tavoli apparecchiati di bianco in luogo delle quinte su ciascun lato, stanno immobili due attori. Vestiti di un’approssimativa tunica bianca. E sarà quello l’unico costume portato dai performer, un rettangolo di stoffa bianca che può acconciarsi di volta in volta a corta tunichetta o mantello o saio o stola, come può facilmente aprirsi o cadere a terra. La nudità, o sarebbe meglio dire l’esposizione dei corpi, è sostanza del teatro di Fabre da quando ne sperimentava la “follia” coniugando gli amorosi morsi di Pentesilea con gli invisibili “vestiti nuovi” della fiaba di Andersen.
“Just a little bit of madness”, è un Dioniso perverso e grassottello (lo spiritoso Andrew Van Ostade) quello che si propone come dispensatore di quel po’ di follia di cui tutti hanno bisogno. E ce ne darà poi esempio la piccola fila di uomini che danzano nudi il sirtaki di Zorba il greco. Quando scoppia la musica di Dag Taeldeman (ma ci saranno anche Wagner e la Traviata di Verdi nei periodici passaggi di una cantante che a un certo punto lascerà il posto alla Medea di Maria Callas) è uno scatenamento orgiastico, una danza collettiva inequivocabilmente erotica nel moto sussultorio dei corpi. Sangue e violenza sono ovunque, dice il testo. Siamo insomma nel territorio del tragico, nella versione dionisiaca predicata da Nietzsche. Ma si potrebbe cogliere anche un’eco della riflessione di Simone Weil sull’Iliade come poema della forza nel dialogo crudele che oppone le ragioni di Ecuba a quelle di Odisseo.
To glorify the cult of tragedy, dice il sottotitolo. E si capisce che a Fabre non interessa un’impraticabile filologia della tragedia greca, quanto farla rivivere dentro il suo teatro, con tutta la radicalità, la capacità accettare la trasgressione, la volontà di guardare alle zone più oscure, eros e morte. Con tutto il suo sangue, che qui è dappertutto, gronda dai pezzi di carne manipolati di continuo dagli interpreti macchiando le vesti e i corpi. E anche la sua bellezza. Nei quattordici capitoli che scandiscono la performance ritroveremo naturalmente la catena luttuosa generata dal sacrificio di Ifigenia, l’uccisione di Agamennone e i figli Elettra e Oreste che preparano quella della madre Clitemnestra; la cecità di Edipo e Antigone di fronte a Creonte e il suicidio di Aiace dopo aver combattuto con un gregge di pecore. Ma dentro la riscrittura che ne ha fatto Fabre, dentro soprattutto il suo linguaggio teatrale.
Se le azioni ripetitive, dilatate fino allo sfinimento degli interpreti, fanno parte del repertorio dell’artista fiammingo (come il salto della corda che si protrae per quasi una ventina di minuti da parte del manipolo guidato da un militaresco coreuta che lancia domande del tipo: qual è il dolore che ferisce di più) altre immagini restano impresse nella memoria. Benjamin ha parlato di gesti citabili a proposito del teatro di Brecht. Qui si potrebbe a buon diritto parlare di scene citabili, dove l’iterazione opera al posto dell’interruzione che caratterizza lo straniamento. È il caso ad esempio della bellissima lunga sequenza che parte da un semplice truccarsi occhi e labbra ed evolve in una sorta di collettiva action painting che trasforma i corpi in un palinsesto di colori.
Alle due passate della notte, quando c’è il primo “dream time”, quasi nessun si è mosso dal proprio posto. Gli attori si sdraiano con i propri sacchi a pelo (bianchi naturalmente e usati anche per una scatenata taranta) sul palcoscenico che già comincia a mostrare i segni di una inevitabile entropia; chi vuole può far uso dei lettini da spiaggia distribuiti ai piani superiori. Ce ne saranno altri due di questi momenti, di durate diverse. E al di là dell’evidente necessità fisiologica di questa pausa, se ne riscontra anche una funzione drammaturgica. Il teatro non si interrompe, e non solo perché qualcuno magari continua una propria danza solitaria. Il sonno e i sogni che l’accompagnano sono convocati di continuo sulla scena. Si annunciano con uno sbuffo di fumo che piove dall’alto e si allarga a ricoprire tutto lo spazio rendendo nebbiosa la visione.
Per questa impresa Fabre ha raccolto performer di generazioni diverse che gli sono stati vicini, a cominciare da Els Deceukelier (la più “attrice” di tutti, sarà lei a interpretare i monologhi delle eroine tragiche, da Ecuba a Fedra) che c’era già in Het is theater, trent’anni fa, ed è stata a lungo la musa dell’artista, fino a Ivana Jozic, indimenticabile Angel of death, e ai più giovani. I guerrieri della bellezza, come li definisce da sempre il loro regista. Dopo aver sperimentato l’arte della spada giapponese e il laboratorio alchemico di Dioniso, dopo aver lavato cuori animali e giocato al tiro alla corda ed essersi ricoperti di ogni possibili sostanza, li vedremo sfinirsi in un’ultima immobile corsa, in un travolgente colorato finale che trascina l’applauso. Dioniso ha ripreso in mano la guida. Tutti hanno bisogno di un po’ di follia.