Una lampada che oscilla bassa poco al di sopra del telone di plastica che copre una superficie vasta e irregolare. Le note tenui di una musica minimale e ripetitiva, spezzata a tratti da un segnale d’allarme. E poi sul fondo il manifestarsi di una presenza ancora indistinta, un lume che si accende dentro un secchio. Il borbottio di una lingua incomprensibile. Ecco però che da sotto sbuca un gruppo urlante vestito di scuro. Si rimettono un po’ in sesto. Dilagano in mezzo agli spettatori con lunghi tubi flessibili. Si arrestano per sbocconcellare le cosucce che hanno tirato fuori dalle tasche. Si infilano di nuovo sotto coperta, sotto quel protettivo telo arancione. Da cui ci arriva distante, trasmesso dai tubi ai nostri piedi, il loro litigioso vociare.
Sono passati trent’anni da quell’orwelliano 1984 in cui Antonio Neiwiller presentò il suo Titanic the end, ispirato un po’ al poemetto di Enzensberger pubblicato qualche anno prima. Un altro tempo. Altre guerre, altri naufragi. Anche un altro teatro, a guardare le cose in scena in quella lontana stagione. Salvatore Cantalupo, che con il Teatro dei Mutamenti fu partecipe di quell’avventura teatrale (c’erano Marco Manchisi, Vincenza Modica…), ne ripropone una sua “visione” bella ed emozionante. La produzione è dei Teatri Uniti, di cui Neiwiller fu parte fino alla morte, avvenuta troppo presto, nel 1993; l’abbiamo vista al Vascello romano per Le vie dei festival di Natalia Di Iorio.
Una cosa vale la pena dirla subito. Che questo omaggio reso da Cantalupo ad Antonio Neiwiller, questa sua “visione” dello spettacolo ideato e diretto allora dall’artista napoletano, non è un puro riallestimento. Una copia dell’originale, una sua meccanica riproduzione. Ma nemmeno è un altro Titanic the end. Come il Pierre Menard di Borges che riscrive il Don Chisciotte, identico parola per parola a quello di Cervantes, Cantalupo ha prima di tutto fatto proprio il metodo del maestro, partendo da un lungo laboratorio con un gruppo di giovani interpreti, in cui quella scrittura scenica potesse nascere di nuovo. Riportandola così al presente.
Ecco così che quel gruppo di giovani donne e uomini, riemersi alla luce della scena, non ci appaiono affatto i sopravvissuti di un’altra epoca. Li conosciamo bene, sono attorno a noi, con la loro disperata inconsapevolezza. Li comprendiamo benissimo anche se parlano quella lingua straniera. Hanno portato le loro valigie sul palchetto che ora, in mezzo alla scena, sembra una zattera alla deriva. Corrono e giocano e ballano. Si ritrovano fra le mani fogli di cui cercano di inventarsi un uso. Si sono liberati dei cappotti pesanti per essere più liberi di dar fondo alla loro clownerie. Ogni tanto il suono d’allarme di una sirena li immobilizza, ma poi riprendono. Altre guerre, altri naufragi, si diceva. Qui però il naufragio è storico, lo aveva ben intuito Neiwiller.
Cala la tela. E su di essa si stampano ombre in lento movimento, al suono lamentoso di un sassofono. Mentre l’artefice ritrovato esce fuori illuminandosi con una torcia che esplora l’oscurità dello spazio circostante, in cui per un’ora hanno galleggiato relitti di gesti e parole. Con emozione che sfiora la commozione, per chi l’ha conosciuto, si rivede allora l’ultima immagine che Neiwiller ci aveva lasciato di sé, né L’altro sguardo.
© gianni manzella