• Un delirante vento di follia nel laboratorio di lingue di Marthaler

    Che grigiore! E che tristezza! Eccoci di nuovo di fronte a uno di quei grandi spazi chiusi che abbiamo imparato a ritrovare nei lavori di Christoph Marthaler, spazi reclusori da cui sembra impossibile uscire, anonimi non luoghi in odore di passato prossimo, dal bunker di Stunde Null alla nave degli Spezialisten o la sala di attesa di Groundings. Ci si aspetta già di vederli entrare, quei suoi personaggi finiti lì dentro per qualche sconosciuta colpa, vestiti sempre in maniera impersonale, senza volontà di eleganza, fuori da un tempo riconoscibile.

    Questa volta il geniaccio di Anna Viebrock ha disegnato per il regista svizzero uno stanzone male illuminato dai neon a soffitto, visivamente dominato da una fila di sei box predisposti con cuffie e microfoni di fronte a un tavolo di comando attrezzato con antiquate apparecchiature audio. Un laboratorio di lingue, dice infatti il sottotitolo di Meine faire Dame presentato dal Festival d’automne nel periferico Atelier Berthier. Un titolo che a sua volta traduce imperfettamente, per assonanza, il più celebre My fair lady. Ma bisogna dimenticare tanto George Bernard Shaw quanto Audrey Hepburn nel film di George Cukor. Del musical di Frederick Loewe e Alan Jay Lerner che trionfò a Broadway e sullo schermo Marthaler conserva qualche canzone, qualche spaesata battuta. Ma già cercarvi i personaggi attesi è un’impresa. Chi mai potrebbe essere la fair Eliza Doolittle fra quei cinque che hanno preso posto ai tavoli, così evidentemente privi di fascino. Se per un momento riconosciamo almeno il professor Higgins nell’allampanata figura che si è seduta al desk e propone insensati esercizi di pronuncia alla classe – e loro in coro: congratulations professor Higgins, non la smettono più – poi anche questa certezza sbiadisce. Sempre più sfatto si ingarbuglia lui stesso nel suo tormentone linguistico. The rain in Spain says mainly in the plain.

    Divertentissimo come tutti gli spettacoli di Marthaler, Meine faire Dame è forse la sua creazione più delirante. Un vento di follia spazza di continuo la scena. Gli interpreti si emancipano dal loro provvisorio ruolo corale, impongono una propria metamorfica individualità trascinati dalle musiche suonate in alternanza da un pianista indolente e da un organista vagamente ispirato a Frankenstein. Duettano mimando Silent night. Vanno su e giù per la scala laterale, variando a ripetizione la gag preferita. Consumano pasti in confezioni da aereo o vassoi di mele. Si definiscono insomma, un poco alla volta, come una piccola comunità in cerca di una forma di comunicazione che vada al di là dell’insensatezza delle parole che sono costretti a pronunciare.

    Cantano. E sulle musiche si costruisce naturalmente la partitura drammaturgica dello spettacolo, intrecciando la Manon di Massenet con la Pavane di Ravel, il Flauto magico con il Lohengrin, ma anche l’Everything I do di Bryan Adams. Così il coretto ridanciano mette a nudo il patetico in agguato e dietro la nostalgia della tristezza che dichiarano si insinua un velo di malinconia. Come a dire che anche da un eccesso di felicità è bene guardarsi.

     

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