Un libro che ancora non abbiamo letto, dice il sottotitolo. Un libro che pochi hanno letto e chi l’ha letto non l’ha capito e chi l’ha capito non gli è servito, dice l’attore a un certo dello spettacolo che si intitola Il Capitale. Come il libro di Karl Marx, certo. Si parla infatti di lavoro e mezzi di produzione, di profitto e accumulazione del capitale nello spettacolo di Kepler-452 che ha debuttato a Vie festival. Ma basta che all’inizio si faccia avanti, megafono alla mano, il delegato Rsu della Gkn, la fabbrica di Campi Bisenzio occupata dagli operai dopo che con una email avevano ricevuto la notizia del licenziamento collettivo, chiudere per delocalizzare, nell’estate dell’anno scorso, per capire che filosofia e economia politica qui lasciano il passo alla vita vissuta. E non ci sarebbe nemmeno bisogno che riassuma gli eventi, tanto questa vicenda ha bucato il velo di indifferenza che circonda da tempo il mondo del lavoro.
Kepler-452 è una stella distante circa 1800 anni luce dalla Terra, nella costellazione del Cigno – la luce che ci arriva oggi da lì risale a quando a Roma regnava quel bel tipo di Eliogabalo, vengono un po’ le vertigini. Una nana gialla, come il nostro Sole. Scoperta nel 2015, l’anno di nascita a Bologna dell’omonima compagnia teatrale guidata da Nicola Borghesi e Enrico Baraldi. Che si sono dati come ragione sociale, per così dire, l’aprire il proprio teatro alla vita che c’è fuori dalla scena. Un rider che attraversa la città per consegnare una pizza, ad esempio, o Il giardino dei ciliegi riletto alla luce dello sfratto di una anziana coppia dalla casa colonica in cui avevano vissuto per trent’anni in comodato d’uso, facendone un luogo magico di ospitalità per uomini e animali.
Quando hanno saputo dell’occupazione, Borghesi e Baraldi si sono presentati ai cancelli della fabbrica, come tanti altri venuti a manifestare la propria solidarietà. E con qualche perplessità degli operai (saranno mica della Digos?) hanno chiesto se potevano fermarsi lì per un po’ per raccogliere i materiali per preparare uno spettacolo, e lì hanno mangiato e dormito (su delle brandine) e parlato a lungo con gli operai della fabbrica. Così raccontano. Così lo spettacolo è nato davvero, è questo a cui stiamo assistendo. E in scena, insieme all’attore, ci sono tre di quegli operai. A raccontarsi, senza compiacimenti o vittimismi. Davanti a un fondale che sembra di lamiera ondulata e invece sono strisce di un materiale flessibile, che si lasciano attraversare quando c’è da portare sulla scena le attrezzature in uso o mostrare cosa c’è al di là all’interno di quei capannoni che altrimenti si percorrono solo con l’occhio di una videocamera, vuoti come sono del “capitale umano”.
Sono Felice Ieraci addetto al montaggio e Francesco Iorio addetto alla manutenzione. E Tiziana De Biasio che in realtà era stata assunta come impiegata ma quando si era rifiutata di segnalare alla direzione gli operai da tener d’occhio, era stata “demansionata” ad addetta alle pulizie. La prima volta che si era trovata davanti ai cessi da pulire, era scoppiata a piangere. Ma poi si era detta che non c’era proprio niente di cui vergognarsi.
Viene in mente Sabenation, una delle prime prove del collettivo berlinese Rimini Protokoll che metteva in scena il fallimento della compagnia aerea belga, la Sabena appunto, dando voce alle migliaia di dipendenti rimasti d’improvviso senza lavoro nel novembre 2001. Arrivi in aeroporto come tutte le mattine e ti accorgi che la tua tessera magnetica di riconoscimento non funziona più, raccontava uno di loro. E si trattava di disegnare nuovamente la propria vita.
Qui è andata un po’ diversamente, nello stabilimento di Campi Bisenzio voglio dire. Perché invece di rassegnarsi alla logica del capitalismo che li voleva sconfitti, hanno deciso di non arrendersi – non siam scappati più, come cantavano gli studenti di Valle Giulia in un’altra era. Ed è cominciata tutta un’altra storia, quella raccontata dalle loro vite, è per questo che Il Capitale non ha nulla della noiosa retorica di un teatro di denuncia. E pazienza se domani la sconfitta arriverà comunque, per mano di chi ha comprato la fabbrica, che non si sa nemmeno con che soldi e chi ci sta dietro. E poi c’è qualcos’altro.
C’è che torna fuori l’annosa querelle delle due culture che non comunicano, quella scientifica e quella artistica o letteraria. Che qui si concretizzano: la fabbrica e il teatro, intesi non come luoghi astratti ma nella loro vita materiale. Con in più il paradosso che anche “il teatro” vive le stesse difficoltà economiche e sociali dell’altra, spazi che chiudono, precariato.
È una fabbrica metalmeccanica all’antica questa Gkn, come tante ce n’erano e ancora ce ne sono. Producevano semiassi per gli autoveicoli, prima della chiusura. Non proprio come in Tempi moderni ma neppure tanto lontana da quel modello derisorio, le linee di produzione, gli operai addetti alla produzione e al montaggio dei pezzi, con i gesti ripetuti secondo una cadenza precisissima che quando Felice li ripete a vuoto insieme all’attore di Kepler, Nicola Borghesi, cioè senza nulla in mano, diventano una coreografia, sembra 1980 di Pina Bausch. Eppure i due registi devono confessare il loro stupore, nel muoversi in quel luogo. Non erano mai entrati in una fabbrica. E devono essere in tanti a non esserci mai entrati in una fabbrica anche fra gli spettatori, tutti naturalmente democratici e progressisti (diciamo, quasi tutti). Quello stupore bisogna preservarlo.
Chissà cosa direbbero davanti, cioè dentro le nuove fabbriche completamente automatizzate, ce ne sono anche qui intorno. Capannoni grandi come paesi dove i carrelli a guida autonoma si muovono lungo percorsi memorizzati e le macchine robotizzate lavorano a ciclo continuo a produrre confezionare immagazzinare. Senza più operai, non serve neppure delocalizzare. Ogni tanto qualcuno che c’è rimasto passa in bicicletta a vedere che tutto vada bene, ma non ci sarebbe bisogno. Tutto è monitorato dalle unità di controllo.
Un incontro nell’autunno del Capitale, c’è scritto da qualche parte nel programma di sala dello spettacolo, echeggiando Gabriel García Márquez. Chissà se si intende l’ordine economico imposto dall’Occidente o il volumone di Marx, che quando ne viene proiettata una frase come una sorta di titolo del capitolo, uno dice: non lo capisco proprio. Quel che conta, quello che si capisce è proprio stare dentro questa ambiguità.
Non voglio più lavorare, urla qualcuno di loro. E si capisce ma è anche un sentimento contraddittorio, di fronte all’orgoglio di chi si riconosce in un sapere professionale trasmesso da una generazione all’altra e coincidente con la fabbrica. La fabbrica era i suoi operai. Com’era il tempo lì dentro? E già si parla al passato. Tempo venduto, tempo comperato e infine liberato. Vent’anni a costruire semiassi, ci credo che qualcuno non ne possa più. Sia benvenuta la contraddizione.
© Gianni Manzella