Il teatro formale di Robert Wilson può andare insieme alla musica emotiva di Giuseppe Verdi? È la prima domanda che naturalmente si pone lo spettatore del Macbeth andato in scena al Comunale di Bologna. Il melodramma ottocentesco occupa un posto a parte e tutto sommato limitato nella lunga esplorazione del teatro musicale che il maestro di Waco, Texas, conduce dai tempi lontani della collaborazione con Philip Glass, per quello straordinario Einstein on the beach che a buon diritto resta nella memoria come uno dei capolavori del Novecento.
E tornano allora alla mente di quello stesso spettatore il luccicante Black rider inscenato insieme a Tom Waits ad Amburgo, in una sorta di congedo dal musical che portava a un massimo di perfezione formale, oltre il quale non era possibile andare, il genere più americano della scena teatrale; o la più recente Lulu con le canzoni scritte da Lou Reed a farsi largo fin quasi a diventare il vero testo dello spettacolo soppiantando le parole di Wedekind; o ancora la bellissima Dreigroschenoper di qualche anno fa, capace di miscelare all’insegna dei songs di Kurt Weill due diverse tradizioni, il teatro epico brechtiano incarnato dal Berliner Ensemble e quella vocazione all’immagine di Robert Wilson, che tanta parte ha avuto nell’immaginario teatrale degli ultimi decenni del secolo scorso.
Arte totale? Ma che banalità… Come se fosse questione di mettere insieme qualche luce, qualche azione mimica, qualche po’ di musica… Un wagneriano pensare il teatro come sintesi di arti diverse… Eclettico nelle scelte, insaziabile nel moltiplicare le occasioni produttive, il regista texano è tuttavia fra i più rigorosi nel preservare la propria maniera. Che solo superficialmente si identifica con Bob Wilson, voglio dire quella versione familiare dell’artista americano (il vezzo ormai insopportabile di quel diminutivo!) che sembra immediatamente riconoscibile, tanto nota da non richiedere alcuno sforzo di comprensione ulteriore. La gestualità lenta che traduce il movimento in esperienza del tempo. La dimensione orizzontale della scena e le sagome che lentamente l’attraversano. Il trascolorare luminoso dei fondali, davanti a cui si stagliano figure che procedono in controluce. Il simbolismo degli oggetti che scendono dall’alto ad affiancarsi agli interpreti, sottratti alla condanna di essere personaggi, di dover incarnare una psicologia, che è quanto di peggio ci si possa aspettare a teatro.
C’è tutto questo, naturalmente, anche nel Macbeth bolognese. Come ci sono immagini visivamente bellissime. Quei due spicchi di luna che si inseguono, come in un romanzo di Murakami… Quei misteriosi scudi che nel buio si illuminano d’argento sulle spalle del coro… Quei dischi solari oscurati da una perenne eclissi, simulacro di una circolarità che permea tutto lo spettacolo… Quelle gocce di sangue che scendono dall’alto, mentre si dilata sul fondale la punta di una lama… Ciò che è in gioco, nella scrittura scenica di Wilson, è il nero di Macbeth. Un nero assoluto, dove per lunghi tratti i corpi scompaiono alla vista, come nell’ultimo Beckett restano in luce solo i volti imbiancati dei protagonisti, maschere di un acido varietà. Che è poi un altro modo per dire la solitudine che traspare dalla nudità assoluta della scena. Non ci sono relazioni ma solo orbite da percorrere, per quelle figurette ingessate nei costumi che fissano i protagonisti nella finzione dei ruoli, gli uomini corazzati, la Lady in veste orientaleggiante che appare da subito sulla scena a imporre il suo indiscutibile protagonismo.
Che sia un modo per prendere le distanze dal melodramma incombente, non possiamo giurarlo. Ma certo qualcosa vorranno dire quei neon che a filo di proscenio cambiano di intensità luminosa secondo il battito dell’orchestra o traducono in un zigzagare di lampi il tuonare della musica. O quelle maschere animali o da commedia dell’arte, quelle parate circensi con tanto di giocolieri che si insinuano negli interstizi dell’opera in musica. Cercando di far breccia nel suo prendersi fin troppo sul serio, con tutti quei palpiti, tutto quel sentimento. Francesco Maria Piave non è Shakespeare dopo tutto, almeno su questo anche i melomani dovrebbero convenire.
Wilson procede per sottrazione. È chiaro che il suo approccio non è rappresentativo, in questa immobile danza di fantasmi. Un Macbeth di meno si potrebbe dire, come Laforgue (e Bene) di fronte a Amleto. Il regista spolpa la storia da raccontare togliendole il supporto dell’azione, anche se non arriva a mettere in crisi il senso narrativo. Elimina ogni traccia di comportamento, un gesto appena della mano che si arresta al termine della frase, da teatro orientale, è ciò che impone all’interprete (anche se verso la fine il regista lascia un po’ la presa e allora ricompare la mano appoggiata sul cuore della peggio tradizione lirica). Nella tensione allo svuotamento della scena, a evitare ogni effetto di pieno, rende il coro quasi invisibile. E lascia in ombra lo stesso Macbeth durante il duetto del primo atto con la Lady, dando un’impronta minore al dialogo quale base storicamente del dramma. E forse vorrebbe sottrarre anche se stesso al ruolo di garante culturale del connubio tra la borghesia vestita Dior e la nomenklatura delle auto blu in sosta tutt’intorno al teatro, ma non spingiamoci troppo oltre.
Non può sottrarsi invece alla dialettica fra la scrittura musicale e la scrittura scenica intese come due entità distinte, fatto che la regia lirica non ha ancora affrontato. Qui il lato formale è la partitura musicale. E a esso il regista si sottomette, consapevole di una perdurante subalternità, una posizione terza per così dire. Si tratta piuttosto per Wilson di investire con le voci uno spazio reale che è quello del teatro, e non una fittizia ambientazione – uno spazio in cui, proprio in quanto reale, è coinvolto anche lo spettatore. Dopo tutto siamo in uno dei più bei teatri d’Europa.