Sta sospeso fra il sogno e l’incubo l’enigmatico Regina madre che Manlio Santanelli scrisse nei primi anni Ottanta e dunque incrocia anche temporalmente i più solidi lavori di Enzo Moscato che il regista Carlo Cerciello ha affrontato magistralmente nelle ultime stagioni. La disturbante cerimonia stregonesca di Scannasurice. La favola nera e cattiva di Bordello di mare con città. Qui siamo invece in un territorio più familiare, inteso proprio nel senso di un contenitore e incubatore di infelicità domestiche cui solo il sogno sembra aprire una via di fuga. O meglio, è questa la chiave di lettura imposta visivamente dalla scena di Roberto Crea, nello spettacolo presentato al Napoli Teatro Festival (la produzione è del teatro Elicantropo insieme alla benemerita Elledieffe di Carolina Rosi). Ecco infatti un grande letto che occupa quasi per intero il palcoscenico del teatro Nuovo, un praticabile che si erge spoglio in un gelido spazio neutro. Fra due disarticolate marionette dal lungo naso che concretizzano il blow-up di una dimensione infantile sottolineata anche dal suono di un carillon. Un Pinocchio e una Pinocchia in realtà, giacché la seconda indossa un ingannevole abito da Fata Turchina. E chissà se bisogna porre più attenzione a quei nasi bugiardi o ai fili che non li reggono più.
Lì sopra sembrano naturalmente piccini i due protagonisti, impegnati all’apparenza in una battaglia per la propria sopravvivenza. La madre del titolo, regina di nome e di fatto del mondo fittizio costruito intorno al ricordo del marito morto. E il figlio cinquantenne che nel fallimento personale ha costruito la propria forse inconsapevole ribellione alla matriarca. Lei se ne sta seduta a far la calza, sospettosa. Lui vorrebbe essere rassicurante, è tornato per starle vicino sapendo che è malata. Ma intanto su un taccuino tiene il diario dei progressi della malattia, sperando di cavarci un libro che lo tiri fuori dalle mestizie del lavoro giornalistico. E quando finisce nelle mani della madre, si capisce che non la prende bene. E sono bravissimi Fausto Russo Alesi e Imma Villa in quel loro giocare di velocità fra la tenerezza repressa e una comicità atroce, mentre vanno piantando tutt’intorno un poco per volta le sponde fragorose che li imprigionano.
Ma poi qualcosa si rompe in quel meccanismo di recriminazioni e dispetti in fondo prevedibile. Sarà che la malattia è chiaroveggente. È l’occasione per uscire dalla falsità, dice lui. Cioè per cadere dal sogno nel delirio. E non è solo questione del fatto che lui si impasticca volentieri e si diverte a spaventare con la favola horror della moglie mangiata. O della mancanza di chiarezza sulla propria identità sessuale che qualche rapporto deve avere con l’imperativo materno “non andare con le donne”.
La trama si sfalda. Tutto diventa più incerto, nella drammaturgia rielaborata da Cerciello. Più labile. L’apparire di un largo cappello piumato richiama in scena il fantasma di una sorella dal destino altrettanto fallimentare. Le parti si invertono e si incrociano per confluire infine in un’unica voce. La sola che forse ci ha parlato fin dall’inizio. L’aprirsi di una botola precipita giù in un sotterraneo paese delle meraviglie ovvero sotto il letto dei genitori, dove forse si riaffacciano ricordi infantili. Una canzone, uno sbaffo di rossetto sul viso. Dove trova il proprio posto anche la torta con le candeline che era sempre stata lì. D’improvviso e chissà perché torna alla mente quella dello struggente Compleanno di Enzo Moscato che si è rivisto di recente.
© gianni manzella