La Celestina di Luca Ronconi al teatro Strehler non è molto diversa dall’omonima commedia di Fernando de Rojas che si era letta da ragazzi in uno di quei volumetti di raffinata povertà pubblicati allora dalla Biblioteca Universale Rizzoli. Testo fuori formato, fuori dai canoni letterari non solo dell’epoca della creazione, sul finire del XV secolo: dunque più o meno coevo della scoperta dell’America ma anche della caduta di Granada che nel 1492 poneva termine alla reconquista dell’intera penisola iberica da parte dei Re cattolicissimi Ferdinando e Isabella, col séguito non tanto casuale dell’espulsione di tutti gli ebrei dalla Spagna. Evento di qualche peso, quest’ultimo, se sono vere le origini ebraiche del misterioso autore di quest’unica opera, se cioè era un converso, uno dei tanti ebrei convertiti su cui si stavano accanendo i rigori dell’Inquisizione.
Non si era ancora letto allora il lontano saggetto di Gadda, Rappresentare la “Celestina?”, ripubblicato di lì a poco all’interno di I viaggi la morte nei “saggi blu” della Garzanti: con quel punto interrogativo che nascondeva in realtà un vero e proprio progetto di regia imbastito dal Gran lombardo. Un dubbio sulla teatralità della Celestina potrebbero porlo i ventuno atti della versione definitiva pubblicata da Fernando de Rojas nel 1502, che infatti Gadda suggeriva di sfrondare delle lungaggini che infoltiscono la trama e riportare a una parlata corrente, non senza qualche eventuale inflessione dialettale. Ronconi ha scelto di rifarsi per l’occasione alla riduzione già pronta del franco canadese Michel Garneau, utilizzata in anni recenti anche da Robert Lepage per una messinscena con la grande Nuria Espert: là in catalano, qui nella traduzione di Davide Verga – un va e vieni linguistico che connota fin dall’inizio il testo, già tradotto in Italia nei primi anni del Cinquecento.
Dunque una Celestina “da” Fernando de Rojas. Che ci si presenta con uno sguardo postumo, cominciando dalla fine, quando la vicenda è ormai arrivata a conclusione e possiamo riviverla con occhi diversi dall’attualità. Su un basso tavolato sta disteso il corpo nudo di Melibea, esposto al compianto del padre e allo sguardo dell’uomo immobile alla sommità di una scala a pioli che si alza dal piano inclinato della scena disegnata da Marco Rossi. Un patchwork di porte lignee in cui si aprono botole, anfratti, un vero e proprio mondo sotterraneo. Da questi inferi, evocati anche dal sottotitolo apposto da Garneau, “laggiù vicino alle concerie in riva al fiume”, salgono e scendono altre porte o il grande letto su cui sta disteso per buona parte del tempo il protagonista maschile, Calisto.
La Celestina di Ronconi, non meno di quella di Fernando de Rojas, porta in sé una inconciliabile duplicità. È uno dei motivi della sua fascinazione. Perché c’è all’origine la Tragicomedia de Calisto y Melibea, la vicenda dei due sfortunati amanti che potrebbe dirsi ricalcata sul modello classico che dal mito di Piramo e Tisbe arriva a Romeo e Giulietta, se non fosse calata in quel mondo di ascendenza plautina, fra servi intriganti e ragazze alla mano, sfondo appropriato all’elemento tragicomico che trova espressione esemplare nella morte dell’uomo, che cade dalla scala usata per scavalcare il muro del giardino dei segreti incontri notturni con l’amata. E ci si potrebbe accontentare di notare come la commedia anticipi di qualche decennio il non meno misterioso Lazarillo de Tormes, prototipo del romanzo picaresco, all’insegna di un linguaggio popolare che travolge i precetti della classicità, se non fosse anche qui per quel sottofondo scuro che si muta progressivamente in cognizione del dolore.
Poi però c’è lei, Celestina, a rimettere tutto in discussione. Commediante e martire. Mezzana e un po’ strega. Spregiudicata mammana e recuperatrice di verginità perdute. Convinta che può tutto il denaro ma anche con l’orgoglio del mestiere, di un proprio saper fare che l’età ha consolidato. Il personaggio si impone con tanta forza su tutti gli altri da rubare presto il titolo stesso della tragicommedia, della quale è del resto il vero e proprio deus ex machina. È attorno a lei e per suo impulso infatti che si sviluppa la vicenda principale, e anche più convenzionale, l’innamoramento furioso di Calisto per l’algida Melibea, tanto più ossessivo quanto più la nobile ragazza piamente lo sdegna. Faccenda erotica, questione di desiderio e non di amore. Io conosco tutto di questo amore – proclama Celestina, compiaciuta di definirsi una “vecchia puttana”.
Un personaggio brechtiano, potremmo dire con qualche buona ragione, a cui non si può negare una certa grandezza epica. Una Madre Courage che ai figli ha sostituito le ragazze del suo bordello a cui fa da materna maîtresse. Senza apparente contraddizione fra i due ruoli, di madre e di ruffiana. Capace di attraversare la sua personale guerra con una inesauribile forza vitale, convinta che quel che conta è in fondo averne qualche profitto. Memorabile è già la sua apparizione, evocata da Sempronio, il servo filosofo di Calisto – io soffro e tu filosofeggi, lo rimprovera aspro. Vien su immobile, a braccia incrociate, Maria Paiato, infagottata in una tonaca scura che rende informe il suo corpo sicché ancora di più risalta il cerchio del volto incorniciato da una cuffia stretta sotto la gola. Un filo di rosso sulle labbra. Si muove sull’impervio piano inclinato con perfetta conoscenza dei luoghi, sa come attraversare senza rischio quelle porte che le si parano dinnanzi e vogliono dire barriere da attraversare, chiavi da infilare nel buco giusto, ma anche mondi che si aprono. La cerimonia stregonesca con cui prepara la pozione magica destinata a piegare la virtù di Melibea è uno sperimentato pezzo di teatro offerto al committente e anche al suo piacere di recitare. Ma se non basta, sa come andare diritto al sodo, con una mano infilata fra le gambe della ragazza.
Quando finisce accoltellata, per aver voluto difendere il suo guadagno, finisce un po’ anche la tragicommedia. Che infatti scivola via verso l’annunciata conclusione, la morte dei due amanti che qui sono Paolo Pierobon e Lucrezia Guidone (era la figliastra nello studio di Ronconi sui Sei personaggi pirandelliani). Là dove era iniziata l’azione. Uno sguardo ormai postumo, quello gettato da Calisto sul corpo nudo di Melibea, dall’alto della scala che funge da emblema del dramma. Ma prima, prima che la protagonista scompaia dalla scena, aveva avuto modo di dispiegarsi l’azione parallela di quell’altra trama ben leggibile nello spettacolo di Ronconi. Il tema di un invecchiare che non vuol dire saggezza ma rimpianto per un altro tempo. Non so come riesco a vivere con tanto decadimento – lamenta Celestina, nei momenti in cui lascia che questo sentimento venga a galla. Salire per scendere, invecchiare per morire. E del resto l’invito a cogliere l’attimo, a non aspettare che il corpo sfiorisca, è anche l’unico argomento dialettico a cui si attacca di fronte alle più giovani. Ed è proprio il racconto del desiderio a fungere da ponte fra giovani e vecchi.
Commedia del desiderio, Celestina è anche commedia di una disillusione. Perché non sono felice? Si chiede Calisto subito dopo il primo incontro con Melibea. L’ha avuta e già vuole andarsene. Un vento erotico soffia attraverso lo spettacolo ma non si posa mai, non scalda i corpi e i cuori. Il desiderio è inganno. I sentimenti quando ci sono restano nascosti, confessarli può apparire un mezzo tradimento. E l’unico momento di tenerezza è un rapido bacio sulla bocca, di cui Melibea non sa cogliere la verità. Avrebbe potuto salvarla.