• Una traccia leggera depositata nell’aria. Conversazione con Simona Bertozzi, Antonio Rinaldi, Francesco Giomi

    C’è, in Animali senza favola, l’ultimo lavoro di Simona Bertozzi, qualcosa di primordiale – la furia incontenibile della zoe si manifesta nella sua piena lucentezza – che si stempera in mobilità viscerale e provvisoria, in un’attesa carica di futuro. È una quiete che chiede alle danzatrici di restare in agguato: come un animale, percepire le più piccole variazioni della terra, cercare un appoggio sull’aria, abitare la densità della polvere, le variazioni infinitesimali di una cellula di suono; e ancora, essere sensibili alla minima variazione di luce, ai suoi bagliori.

    È esattamente questo principio di esplorazione delle possibilità del corpo che organizza su due piano l’architettura di questo dialogo intorno al trincio di gradazioni che opera in questo lavoro. Chiaramente, la nozione di gradazione applicata a quella di presenza non indica una variazione di qualità o di quantità, piuttosto di consistenza e di intensità : non c’è una presenza meglio qualificata di un’altra, ma ci sono infiniti gradi di presenza concepiti secondo scale di intensità diverse. Ciò che intendo qui proporre è l’intervento su una materia particolare: il tempo.

    Il lavoro sul tempo, in questa prospettiva, è legato alla presenza come tensione palpabile, processo di trasformazione che porta dal tempo delle forme alle forme del tempo.

    Simona Bertozzi: Per comporre una coreografia opero un’immersione nel corpo. Animali senza favola parte da questo dato elementare, ma imprescindibile. È uno studio, una pratica che si rivolge al corpo con l’intento di esplorarne a fondo la sua architettura, dispiegare le sue funzioni motorie, materiche e meccaniche, il loro interagire e la disponibilità a prendere sostanza nella pulsione dei flussi dinamici e nelle continue migrazioni di senso,

    La declinazione del corpo che mi interessa, in quanto coreografa, ha a che fare con la sua dimensione paesaggistica. Il corpo-paesaggio, le sue intensità e le sue estensioni sono gli elementi compositivi sui quali si orienta la mia visione della coreografia. Si tratta di una ridefinizione dell’anatomia attorno a una serie di regole posturali e di modalità cinetiche che fanno di questo corpo una sonda, un punto di passaggio per un’irradiazione. Non si tratta, pertanto, di un corpo chiuso nella sua forma – l’anatomia è qui un’apertura verso l’esterno, una disgregazione della forma a favore della dinamica: toccare lo spazio e in esso gli altri corpi, organici o sola pulsione ritmica che siano. Immagino il corpo-paesaggio come un corpo-spazio, un corpo-tempo che attraversa e fa deflagrare la mia percezione delle cose, ne tocca i margini e ne misurare le distanze; disegna vicinanze, architetture… “Animali senza favola”, li chiama appunto Maria Zambrano nel suo Chiari del bosco, perché intensità allo stato nascente e dunque non ancora irretite in una narrazione.

    Sono corpi che abitano i margini: dello spazio, della luminosità; corpi in penombra che vanno incontro alla luce seguendone il respiro: corpi che si immergono nel colore.

    Foto: Futura Tittaferrante

    Foto: Futura Tittaferrante

    Enrico Pitozzi: Mi interessa, in questo lavoro, il riferimento al corpo che traccia architetture. E mi riferisco, nello specifico, all’ abitare il palco in modo animale, che qui emerge prepotentemente. Architettura è, così, disposizione nello spazio della scena delle traiettorie di cui un corpo è fatto. Non c’è antropomorfismo ma dinamica incessante che porta al divenire: divenire animale o altro da sé, ad ogni modo. La scrittura coreografica è questo fare spazio con il corpo che incontra altri corpi. È lì che si assottiglia la visione, non più un corpo che si assomma a un altro corpo, ma uno spazio tra questi due corpi, una traccia nella continuità della materia. Allora qui se delineano volumi che pulsano tra i corpi delle interpreti, che sono Miriam Cinieri, Lucia Guarino, Francesca Duranti, Stefania Tansini e la stessa Simona Bertozzi.

    S.B.: Il diagramma che la singola presenza traccia nello spazio con il proprio movimento così come quello più complesso e stratificato del dialogo tra più corpi, mi appare come una costellazione di rimandi, scie, traiettorie, un’epidermide che si tende per sfondamento dei perimetri e delle singole anatomie. Sono corpi continuamente “attraversati”, tessuti connettivi di una molteplicità di traiettorie che pre-esistono e mettono continuamente in discussione la “volontà” di prevedere una forma finale.

    La grammatica del gesto è per me continuo passaggio di informazioni, come la materia che transita incessantemente da un elemento a un altro… Come i magnetismi planetari. In questa atmosfera l’animalità non è quindi una manifestazione contenuta e plasmata dall’attitudine del singolo, dalla sua necessità percettiva e dalla volontà (compiacenza?) di una configurazione finale del proprio agire, piuttosto è il risultato di una tattilità complessa, fragile e ostinata al contempo, che si appoggia sulle pieghe, gli interstizi, i canali, i volumi, i “passaggi” dell’interagire tra i corpi. E trova continue migrazioni di immaginario, depositando nello spazio rimandi, citazioni che si disgregano non appena sembrano giungere ad una possibile definizione.

    Un’animalità sempre sulla soglia, sul bordo del respiro, della sua reiterazione, a rinnovare, ogni volta, la bolla di spazio in cui è contenuta.

    Foto: Marco Mastroianni

    Foto: Marco Mastroianni

    E.P.: Questo corpo è allora un reticolo, una geografia da esplorare, il cui centro, in realtà, è assente. Le cose più interessanti avvengono sempre ai margini della nostra attenzione. Ogni corpo sente: angoli, vuoti, ombre, linee infinite. Fare del corpo una carta, una cartografia, un diagramma. E poi la temperatura di questi corpi, la loro lucentezza che incontra, in scena, una poetica del colore di Antonio Rinaldi.

    Antonio Rinaldi: Proprio queste atmosfere di luce – che entrano in modo determinante in Animali senza favola – sono il senso del mio operare. In questa direzione mi colloco come un osservatore: il mio lavoro è di per sé un lavoro incompleto, nel senso che potrei completarlo se riuscissi a vedere quello che faccio senza farlo, articolando su di esso uno sguardo esterno. Tuttavia questa visione mi è impossibile, proprio perché non colgo gli effetti che il mio intervento sulla materia luminosa opera su chi osserva. E dunque la prospettiva che posso qui adottare precede e introduce la poetica della luce di cui parli. Dunque l’aspetto tecnico qui è determinante. Una luce crea il nulla o l’infinito; una luce può amplificare i corpi – anche se questi sono molto piccoli. La luce apre la percezione di ciò che avviene in scena. Questa è la sua materia più intima. Un’opera la si percepisce, non la si vede.

    Non tengo mai una luce ferma, ogni cambio luce è infitesimale ma sempre dinamico. E c’è un aspetto importante del mio lavoro che riguarda il controllo live di ogni luce, non mi interessa registrare le tracce luminose, ho la necessità di interagire sempre con esse: ogni volta è lo stesso ma diverso, questo per me significa lavorare nell’atmosfera, variare al variare dell’impercettibile, una questione di sfumature: operare intorno a quel niente che può cambiare tutto.

    Foto: Marco Mastroianni

    Foto: Marco Mastroianni

    E.P.: Un’atmosfera non la si comprende, la si assapora. Mi sembra questo un aspetto sul quale le nostre riflessioni convergono. Passare attraverso una gamma di sensazioni; si tratta di affinare il nostro operare in accordo con le percezioni più piccole, infinitesimali e impermanenti. Il mondo della latenza è la terra in cui ci muoviamo: dal micromovimento del gesto, alle nuances della materia cromatica. Si tratta qui di rivendicare – contro il tempo presente – una diversa qualità delle cose. Un non-so-che che ci tocca sfuggendo come una sensazione da abitare. Il suono composto da Giomi, in Animali senza favola, si muove in questa direzione.

    Francesco Giomi: Credo molto nella dimensione organica della relazione tra gesto e musica: una dimensione dove non necessariamente gli elementi si inquadrano in un’ottica perfettamente sincronica, ma all’interno della quale i movimenti del corpo e della musica si toccano, si allontanano, si studiano, si articolano, per poi separarsi e riconvergere nuovamente. Il quadro compositivo in cui ho lavorato è quello di una dicotomia tra strutture tessiturali e strutture ritmiche, che si alternano nello spettacolo evidenziandone in qualche modo il tratto formale. Tali strutture non si ripetono mai uguali a se stesse, contengono microvariazioni interne così come continue irregolarità e sfasamenti ritmici: il riferimento è ad un’idea di “organismo”, che sfugge a un concetto di musica fissa e inamovibile: delle regole interne esistono, ma esse possono mobilitarsi ad una elasticità coreografica come a una ripetizione drammaturgica continuamente in variazione.

    S.B.: Proprio di queste temperature, rilanciate anche dall’intervento di Francesco Giomi e di Antonio Rinaldi, si compone la sostanza del corpo-paesaggio e il suo depositarsi nella visione della scena: non tanto le sua consistenza formale, piuttosto ciò che esso lascia al suo svanire, l’impressione che si deposita nella memoria di chi osserva. È un risuonare dei corpi. È una irradiazione.

    Il corpo incide lo spazio in un punto preciso ma la sua pulsazione riverbera altrove. Le conseguenze dell’azione sono sempre altrove. Il corpo moltiplica le coordinate del suo agire. Opera con la gravità, con le sue pressioni, evapora nel suo staccarsi dal suolo Si fa tramite e inizia a sussistere come sostanza altra rispetto alla sola produzione di movimento.

    Il corpo appare come geografia anatomica per una moltitudine di apparizioni, trasfigurazioni, dissolvenze, in un dialogo continuamente aperto tra anatomia, proiezione del pensiero e la grammatica della scrittura coreografica. Ciò lascia intravedere le scie e i magnetismi della materia e dei corpi, le traiettorie fra i volumi, lo spazio tra le cose: la materia fantasmatica.

    Cerco di infondere alle immagini di questo lavoro una potenza evocativa, una consistenza atmosferica, una persistente necessità di apertura delle temperature interne, tra l’ossatura grafica dei corpi e le increspature del prisma compositivo in cui depositano il loro agire.

    Quelle di Animali senza favola sono immagini che devono apparire inaspettatamente, pur mostrando la loro traiettoria interna, per quella continua capacità del gesto e dell’articolazione dinamica di collocarsi nelle zone liminali del dialogo tra anatomia e relazione spazio temporale.

    A.R.: Questa prospettiva, il piano di sensibilità e sottigliezza che la nostra riflessione sta articolando, mi porta a sfiorare questo pensiero pericoloso, che riguarda la parte infinitesimale della luce, le sue minime variazioni – ma ogni minimo della variazione è un cambio di tono, temperatura, volume: il senso delle cose. Esistere per la variazione. Esistere nella variazione. Queste microvariazioni sono la texture necessaria sulla quale si compone la macrovariazione; tuttavia ciò che accade, il segno della variazione, si dà sul piano impercettibile. Il lavoro che ho fatto sulla cromia di Animali senza favola va esattamente in questo senso.

    F.G.: È in questo quadro che la composizione sonora è frutto di un’intensa collaborazione: i suoi elementi sono stati generati, modellati e poi via via scomposti e ricomposti, decostruiti e rimontati, trasformati e ristrutturati fino alla versione finale. Una procedura questa che accomuna Animali senza favola ad alcune delle mie esperienze precedenti, in oltre dieci anni di interazione con la danza. Il mio rapporto con il gesto ma anche con il colore è quasi interamente giocato sul piano emozionale. In questo senso quella che viene fuori non è una vera e propria musica autonoma, ma una serie di “paesaggi sonori emotivi”, totalmente a servizio dell’azione scenica. Così come il colore, essi possono riproporsi in sfumature e variazioni differenti, così come possono essere ascoltati di volta in volta in una luce nuova grazie al continuo mutamento del rapporto con il gesto coreografico…

    Foto: Marcello Briguglio

    Foto: Marcello Briguglio

    E.P.: …parlate qui di un’epifania degli stati intermedi in cui la materia del corpo, dei suoni e della luce transita attraverso l’esplorazione di diversi gradi d’intensità: bagliori, scintillii, effetti evanescenti. Prolungando ai corpi questa riflessione, possiamo parlare della loro temperatura, questo introduce un aspetto centrale del nostro dialogo: il transitare del corpo nelle diverse fasi del giorno. Questo è il principio sfumatura di cui stiamo parlando. Un corpo varia al variare di un’infinità di parametri: ogni corpo ha la sua temperatura e ha il suo tempo. Si tratta qui di essere sensibili alla temperatura delle cose e, in accordo con le sfumature del giorno, al limite dell’impercettibile, entrare in sintonia con il colore dei luoghi, con i bagliori del corpo, con le vibrazioni del movimento.

    S.B.: La composizione del movimento, nella mia visione della coreografia, avviene proprio per temperamento: un misto di temperatura ed equilibrio dinamico tra elementi, un’inabissarsi nella dimensione tattile delle cose. Ogni transito, ogni stato di corpo è il prodotto di un sentire diffuso, di una percezione dilatata, in cui l’anatomia si ricompone ogni volta diversa, secondo traiettorie diverse. Un corpo passa nelle fasi del giorno e il suo gesto sarà sempre una variante, una sfumatura. È in gioco il divenire del corpo. L’aria cambia, il corpo riflette la luce e modifica le cose. Avverte le vibrazioni del suono. Sentire il corpo, ciò che intorno a lui vibra. Temperamento è il colore dell’azione quando compongo, una forma di tattilità. Questo il pensiero che si offre all’indagine e alla pratica di composizione e scrittura coreografia nel mio lavoro. E anche in questa avventura a cinque di Animali.

    A.R.: Questo insieme di presenze ha a che vedere con l’animale: la presenza è un’attenzione vigile alle cose, a tutti i piani sui quali esse si manifestano: la presenza è una tensione che fa – letteralmente – scomparire i corpi. Pensate al mimetismo: una preda scompare da sotto gli occhi del predatore senza abbandonare il suo posto.

    Si scompare stando lì. Si abita lo spazio da invisibili. Vado fuori fuoco. Scompaio restando sul posto. Un vuoto che sposta l’attenzione dell’altro.

    Pensiamo alla luce: è là che la luce sembra scaturire dai corpi. Il contorno delle cose sfuma tra un ente e l’altro; il suono fa lo stesso, apre dimensioni. Questo è il rapimento dell’attenzione dello spettatore, del suo sguardo. E qui torna l’assaporare di cui prima si parlava. Cambia la velocità delle cose…

    F.G.: Questo cambiare velocità agli enti ben si addice al suono. Per esempio, nel precedente lavoro firmato per Simona Bertozzi, Oratori_ae (2013), il rapporto con la musica era in parte diverso, sia per l’approccio compositivo che per le modalità. Infatti in quel caso c’è stata meno la possibilità di interazione con lei sul piano strutturale e la musica, pur ampiamente provata e verificata, era suonata dal vivo. La presenza sul palcoscenico di un musicista cambia sempre il punto di vista dello spettatore: nel caso di Oratori_ae avevo quasi la funzione di “direttore di coro” (sottolineata anche da alcuni semplici gesti che ero chiamato a fare) di colui che in qualche modo dà inizio e regole al flusso di gesti. Tutto questo con strumenti musicali elettronici, sia digitali che analogici, tali anche da permettere una costante variabilità e una piccola dose di improvvisazione. In Animali senza favola la relazione con la musica ritorna invece più canonica, ma non per questo meno complessa e articolata.

    E.P.: C’è un aspetto, in chiusura, che ritengo importante in questo lavoro: l’evanescenza delle cose. La loro epifania. Le cose sembrano lì – i corpi sembrano lì – ma non sono lì per te. Le cose avvengono sempre su piani diversi. Tutte le cose, contemporaneamente, si realizzano. Dentro la stessa realtà, esistono i piani tra i quali la percezione transita senza riposo. In questo schema possiamo dunque affermare che non può esistere un’atmosfera distinta ed avvertibile, se questa prima non integra un insieme potenzialmente infinito di piccole atmosfere – non necessariamente omogenee – capaci di sbilanciare e rovesciare l’atmosfera precedente, preparando così il passaggio alla successiva. Tuttavia questo transito tra l’una e l’altra è impercettibile.

    Stanno così questi corpi, come in attesa di tempo; animali senza favola, privi di narrazione, continuamente in divenire attraversano temperature e gradi di presenza in attesa del congedo finale che tarda ad arrivare, riassorbite nelle curvature della vita, nelle pieghe di un frammento d’esistenza.

    Forse la loro forza non è altro che questa: fragilità e potenza, figure femminili in reiterato concepimento.

     

     

     

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