Il Paradiso di Romeo Castellucci è una visione che si può soltanto spiare per un breve momento, dalla finestra circolare praticata in basso nella parete nera che chiude allo sguardo l’interno della chiesa dei Celestini. Da quella apertura, oscurata a tratti dallo sventolare di una bandiera nera, le fughe verticali dell’architettura gotica si riflettono nello specchio d’acqua che copre la vuota navata allagata. Lontano, un pianoforte aperto. Null’altro, se non i suoni diffusi da Scott Gibbons.
Conviene forse partire da qui, da questa immagine insieme folgorante e struggente, per risalire all’indietro nella memoria lasciata dalla trilogia dantesca allestita dall’artefice della Societas ad Avignone – di cui era quest’anno direttore associato insieme a Valerie Dreville, l’indimenticabile interprete della Medea di Vasil’ev. E la sollecitazione pungente della memoria non può che richiamare altre immagini, quella straziante e bellissima di una notte romana di tanti fa. Leo de Berardinis urlava nel microfono i versi del XXXIII canto del Paradiso davanti a un fondale di stelle sforacchiato da buchi neri, mentre Perla si muoveva estranea sul palco come una falena impazzita, amplificando con un megafono la raggiunta afasia. Era, quella inscenata da Leo e Perla, la tensione nostalgica verso il paradiso di chi è condannato all’inferno. Aspirazione a una salvezza impossibile o inappagato desiderio di bellezza. Un sentimento di nostalgia sembra dominare anche il lavoro di Castellucci, così intriso da tanti elementi autobiografici. Un sentimento di perdita, forse, che sarebbe fin troppo facile motivare.
Conviene partire da quell’immagine, si diceva. Da quel solitario pianoforte a coda che costituisce il più visibile tratto di congiunzione fra le tre disomogenee creazioni che traducono in personalissime visioni le cantiche della Commedia dantesca. L’avevamo visto andare in fiamme nel mezzo di Inferno ed eletto poi a troneggiante emblema borghese al centro della scena di quell’altro inferno quotidiano che è Purgatorio. E questa metafora ossessiva rimanda inevitabilmente alla dimensione dell’arte, ai suoi sviluppi anche concettuali novecenteschi, fra il silenzio di Cage e la natura di Beuys. Certo, si sa quanto la riflessione metateatrale sul destino dell’artista abbia intrigato fin dagli esordi (fin dalla scelta della sigla produttiva, bisognerebbe dire) il gruppo di Cesena. (Non diversamente da come l’autismo del loro Amleto era specchio estremo di una tensione verso la parola assunta come mito, sia che la si insegua nei libri sacri sia che venga degradata a materia escrementizia). Ma qui, questo destino perde qualsiasi valenza generale per assumere un significato del tutto individuale. È inferno paradiso e purgatorio. Fin dal primissimo gesto di autoaffermazione dell’artefice.
Io mi chiamo Romeo Castellucci, dice l’artista uscito da solo sul vasto palcoscenico nudo eretto nella cornice notturna della Corte d’onore del Palazzo dei papi. Ed ecco che tre cani feroci si avventano su di lui, lo azzannano a terra, mentre altri cani alla catena si danno a un furioso abbaiare. Il tema del pericolo fa così ingresso da subito nello spettacolo, gonfiato di lì a poco dall’uomo che scalerà a mani nude la facciata del palazzo, per tutta l’altezza, in un emozionante rallentato, fino a ritrovarsi lassù in cima e gettare giù il pallone che dopo un paio di rimbalzi finirà fra le mani di un bambino.
Io mi chiamo Andy Warhol, leggeremo più avanti sulla parete del palazzo, dove si proiettano a grandi lettere i titoli e le date delle opere più conosciute e consumate (l’una cosa non va senza l’altra) dell’artista americano, dal ritratto di Marilyn Monroe al barattolo di Campbell soup. Rendendo trasparente così l’iniziale autopresentazione dell’artefice. È lui, Andy Warhol, il Virgilio in grado di accompagnare nella discesa verso l’Inferno contemporaneo? Difficile immaginarlo. Ma non è questo il punto. È se mai che Castellucci assume Andy Warhol, la sua superficialità, come una spia della condizione dell’artista nella società contemporanea. Non guida dunque, specchio piuttosto in cui guardare il mondo – non a caso posto a confronto con la figura antitetica di Joseph Beuys quale artista sciamano, richiamato dalla totemica pelle di lupo che passa da un interprete all’altro fino a restare proprio sulle spalle di Warhol.
L’immagine di Andy Warhol prenderà corpo anche fisicamente, nel finale di Inferno, quando una sua mimetica copia farà ingresso in scena, davanti alla carcassa d’automobile bruciata portata nel mezzo di un lago di sangue. Scatta un’ovvia polaroid del pubblico. Si lascia cadere a ripetizione dal tetto dell’auto, emulo di Carmelo Bene dalle mura del castello di Otranto. Mentre cadono fragorosamente dall’alto anche i monitor che si erano accesi in una fila di finestre per comporre la parola ETOILES, stelle, e lasciare un più enigmatico TOI, tu, che richiama la responsabilità individuale dello spettatore.
Ma intanto sulla scena si sono accese e spente una serie di azioni spettacolari che coinvolgono un coro di una settantina di interpreti di diverse età. Cadono, rotolano, si dispongono in fila di spalle sul fondo. Assecondano i movimenti coreografici che portano la firma di Cindy Van Acker, densi di gesti allusivi. Un cubo nero rivela al suo interno un asilo d’infanzia. Di lato ondeggia un enorme involucro gonfiabile. Un telo si stende sugli spettatori per mascherare un cambio di scena. Ma proprio questa spettacolarità può indurre a una lettura superficiale del lavoro, indifferente alla questione di quale sia la direzione verso la quale Castellucci sta spingendo la sua regia ora che si è sciolto il sodalizio. Bisognerà forse attendere che lo spettacolo sia ri-creato fuori dalle irriproducibili seduzioni spaziali in cui è nato. Non stupisce che Purgatorio si presenti allora come il lavoro più compiuto della trilogia.
Il purgatorio si sconta vivendo, vien da dire di fronte all’inferno domestico allestito su un tradizionalissimo palcoscenico, nella banlieu avignonese. Puro teatro borghese, all’apparenza. Una cucina dove una madre prepara la colazione per il figlio. La camera da letto del bambino che gioca a nascondersi nell’armadio per “combattere i mostri” in compagnia di un Mazinga che nell’immaginazione può assumere dimensioni ipertrofiche. La sala che testimonia del benessere di questo minimo nucleo sociale. Dialoghi scarni, anticipati in forma di didascalia, a sottolinearne la letterale pre-vedibilità. Ma come nelle immagini di Gregory Crewdson, in questo universo perfettamente logico, normale, familiare, si osserva una crepa, un’infrazione. Le parole d’improvviso si scollano dalle azioni. Dov’è il mio cappello, chiede il padre. E dietro la citazione della commedia allegra di Natalia Ginzburg si aprono abissi alla David Lynch. L’incubo di un incesto bestiale si traduce in immagini visionarie, enormi fiori che ruotano di fronte a uno specchio deformante. Per riapprodare in quella stessa sala svuotata di ogni arredo, dove la violenza si esorcizza in un balletto derisorio. Molti applausi, molti dissensi, ed è sempre buona cosa che ciò avvenga.