Sullo schermo che funge da fondale si proietta l’immagine di una anziana donna morente. È seduta in poltrona, immobile, gli occhi socchiusi. La camera fissa su quel volto ne registra i minimi movimenti rallentati. È per lei che si intona Requiem pour L., l’ultima creazione di Alain Platel e Fabrizio Cassol, presentata al teatro Ariosto di Reggio Emilia per il Festival Aperto. Che è quel che dice il titolo, una cerimonia liturgica e insieme una composizione musicale che si appropria di quel rito. La collaborazione fra il regista e il musicista belgi dura ormai da un decennio; insieme hanno attraversato in vsprs la musica di Monteverdi e la Passione secondo Matteo che in pitié! rimandava a Pasolini e da lì alla Deposizione di Rosso Fiorentino. Ma è il più recente Coup fatal che anticipa l’incontro fra la tradizione musicale africana (lì erano in scena tredici musicisti congolesi) e il repertorio barocco caro al regista, che qui si dispiega con in maniera ancor più radicale.
Il punto di partenza è la Messa in re minore di Mozart, quel Requiem rimasto incompiuto per la morte dell’autore che tante leggende nere ha alimentato. Opera incompiuta e dunque aperta non solo a un adattamento ma a una reinvenzione qual è quella operata da Cassol. Che ha riempito a suo modo i vuoti della partitura originale, espungendo i completamenti successivi. Tre voci liriche (tenore, soprano e contralto) a far da contrappunto alle tre voci nere chiamate a tradurre nelle loro lingue (letteralmente) i testi latini canonici. Dies irae. Sanctus. Benedictus. Giacché sono soprattutto le parti vocali a portare dentro Requiem pour L. un’eco mozartiana. A prevalere nell’impasto è piuttosto il sincretismo della musica che si riflette negli strumenti suonati in scena sotto la direzione di Rodriguez Vengama che imbraccia la Gibson rossa a due manici cara all’iconografia di Jimmy Page, il leader dei Led Zeppelin. Chitarre elettriche e percussioni, fisarmonica e likembe, che sono delle piccole tastiere a lamelle che si tengono fra le mani e si suonano con i pollici. E la tuba, che è proprio lo strumento biblico che diffonde un suono meraviglioso sui sepolcri e chiama tutti davanti al trono.
Allude a un luogo cimiteriale la scena ingombra di parallelepipedi grigi di dimensioni diverse, con un voluto richiamo al Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa che sta a Berlino. Quando ancora lo spazio è nella penombra un primo musicista si è seduto su uno dei tumuli, con la fisarmonica ha attaccato una frase del Requiem mozartiano. Due cantanti l’hanno raggiunto, anticipando l’ingresso in scena dell’intero ensemble. Sono quattordici gli interpreti, tutti vestiti di formali abiti scuri ma sotto magliette colorate e collane. Su quelle tombe prive di lapidi saltano e ballano. Ciò che infatti emerge subito è come la vocalità barocca appena innescata si sciolga in una commistione di ritmi africani e questi si portino dietro un movimento del corpo se non proprio un passo di ballo, senza spostarsi dai geometrici tumuli.
Dice Cassol che c’è poco di africano nelle armonie e nei ritmi che ha inserito nella partitura: tutto fa parte di un universo di sonorità che pesca in tradizioni musicali specifiche di diversi continenti. Ma è difficile prescindere da ciò che a quell’universo musicale apportano i corpi degli interpreti, la loro fisicità. Il requiem, il commiato funebre si trasforma per loro tramite in un atto vitale. Fino al culmine dello straordinario Lacrimosa dies illa in cui la fusione della musica mozartiana raggiunge il vertice.
Ci si potrebbe abbandonare alla piacevolezza dei ritmi che travolgono, alla forza trascinante di quei passi di ballo se non fosse per il volto di L. che incombe sul fondo. Da cui non si riesce a staccare lo sguardo ma a cui allo stesso tempo non si può guardare che con una sorta di pudore. Per un attimo socchiude gli occhi, passa e si spegne l’ombra di un sorriso mentre qualcuno, fuori dall’inquadratura le prende una mano. La donna ha accettato che fossero ripresi i suoi ultimi momenti di vita, con la stessa consapevolezza con cui ha scelto di andare verso la morte. E se i fazzoletti bianchi agitati dagli interpreti a ritmo con la musica sottolineano in maniera un po’ esteriore l’idea del commiato, i piccoli sassi che si ritrovano sui tumuli, come vuole la tradizione ebraica, sono il segno visibile lasciato a testimonianza della partecipazione collettiva al rito funebre.
E Platel? Sono passati più di vent’anni da quando l’artista fiammingo ci sorprese con le colorate diversità che animavano La tristeza complice. E a sorprenderci ogni volta ha continuato, in tutti questi anni, spostando un poco più in là gli elementi di un linguaggio scenico comunque riconoscibile. Qui Platel sembra farsi da parte. Anche la parola coreografia è stata cancellata dalla locandina. Non si troverà in Requiem pour L. la danza bastarda dai movimenti sgraziati dei suoi ultimi lavori, la gestualità animale di tauberbach, la straziante drammaturgia fisica di Out of context.
Spettacolo all’apparenza facile, per chi ne colga solo l’eco sentimentale, Requiem pour L. è in realtà fra i suoi più misteriosi. Come il finale avviato verso il silenzio e l’oscurità che tutto assorbono e si ribalta invece nella ribellione degli interpreti. Vita contro morte. Replicando l’invito ad andare oltre la fissità di un’immagine di morte con cui già si chiudeva, doloroso e bellissimo, il precedente nicht schlafen.
© gianni manzella 2018