La vita è immortale finché è vissuta, dice a un certo punto uno dei protagonisti di Raccogliere & Bruciare. E potrebbe racchiudere il senso del bellissimo spettacolo di Enzo Moscato ripreso al Teatro Nuovo di Napoli dopo il debutto della scorsa estate. Per quest’altra discesa nel ventre del teatro, che fa tutt’uno con la sua città, l’attore e drammaturgo napoletano si è rivolto all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, grande libro del tempo e della memoria che in molti amammo in anni giovanili grazie alla traduzione di Fernanda Pivano.
Quella di Moscato è una riscrittura “imbrattata qua e là di lingua e di suoni napoletani”, dice l’autore. È ben di più, naturalmente. Giacché quella compiuta da Moscato sull’ottantina di brani tratti da Spoon River, ulteriormente ridotti forse a una metà nella versione scenica, è una riappropriazione fisica di quelle parole, un farle proprie con il corpo e ributtarle fuori avvolte nel velo di una lingua che incrocia tante lingue diverse, com’era avvenuto in passato per l’Amletodi Santarcangelo, o in seguito per Copi e Artaud e Rimbaud.
Al centro c’è naturalmente la babelica Neapolis di tutte le sue creazioni. La piccola città di provincia dell’avvocato dell’Illinois qui si è trasformata in una cimiteriale Spentaluce che il gigante micidiale del Vesuvio ha ridotto tutta in cenere e lapilli. Lo stesso destino di Hiroshima, vi ricordate di Hiroshima? dice la prima figura che vi appare fra i rossi bagliori e i fragori di un’eruzione evocata dai suoni dei Pink Floyd a Pompei, per poi scivolare verso una più tenue musica jazz. Dando ragione del titolo, Raccogliere & Bruciare, che certo richiama un pietoso lavoro da monatti in tempi pestilenziali ma forse più segretamente allude proprio alla necessità che sta alla base di quel lavoro di trasposizione di lingue e luoghi e mondi.
La scena allestita da Mimmo Paladino, in realtà un’installazione che reca il forte segno dell’artista, è un cimitero di grezze croci di legno appese un po’ sghembe tutt’intorno al palco, con accanto le maschere primordiali di volti che forse la morte ha reso tutti uguali e impersonali. Viene naturalmente in mente Genet che preconizzava nel cimitero il luogo ideale del teatro. E fra le tante ombre che qui si incontrano forse un passaggio l’ha fatto anche lo scrittore francese, a dar credito alla traccia lasciata da Moscato che ha chiamato Stilitano il primo e più ritornantedei personaggi cui presta il corpo, come uno dei protagonisti del Diario del ladro. Altri richiami letterari del resto non mancano. Fra i personaggi compaiono anche i nomi di Whitman e Byron e la Plath, un altro èsoprannominato per scherno Shelley come il poeta le cui ceneri furono disperse dalle parti della piramide che è in Roma.
Lì in mezzo l’artefice si aggira con passo leggero con indosso una maglietta a righe da barcaiolo di laguna e una sciarpetta o uno scialletto che lo rendono meno facilmente decifrabile. Elettivo sciamano della magica evocazione o forse, con maggiore aderenza al suo genius, “spiritillo” che si è insinuato negli anfratti del teatro e da lì ne sovverte l’ordine costituito. Ora allunga una parola; ora dispensa un gesto che resta sospeso nell’aria, e però è capace così di trarre fuori dall’ombra disegnata dalle luci di Cesare Accetta quella sola moltitudine. La vedova nera. Il dottore del paese, il chimico morto per un maldestro esperimento, l’usuraio, il giudice. Il suonatore Jones che giocò con la vita per tutti i novant’anni non pensando né al denaro né all’amore né al cielo, e ormai più che a Edgar Lee Masters sembra appartenere per sempre a Fabrizio De André.
Sono più di venti gli attori in scena, fra cui due bambini. Ci sono affermate protagoniste della scena napoletana come Imma Villa e Cristina Donadio, da tempo uscite da una dimensione puramente locale. Altri interpreti di quella radicata tradizione come Vincenza Modica, Benedetto Casillo, Carlo Di Maio. E Gino Curcione che è un Pulcinella dalle movenze zingaresche. I giovani della bottega di Moscato. Enza Di Blasio che alla chitarra porta una sorprendente nota antica nella drammaturgia musicale dello spettacolo. Che è come una traccia parallela da seguire, un’altra Spoon River da disseppellire nel variare dalla Joan Baez di Where have all the flowers gonee 500 milesa Blowing in the windperò in una meno nota versione di Marlene Dietrich, fra ricordi di guerre di cui si è persa la ragione e violenze che restano invece attuali.
Fino alla dolceamara Vivereche già si era sentita a metà dello spettacolo con la voce anni Trenta di Carlo Buti (erano in arrivo le leggi razziali) e torna nello struggente finale cantata in coro da tutti gli interpreti al momento degli applausi. Vivere, senza malinconia. Vivere, senza più gelosia. Vivere.