• Wilco, le signorine e l’odore del fieno

    La scena di Alvis Hermanis stavolta non odora. Di fronte alle stanze decrepite del suo Long life, alla comune hippie dello splendido The sound of silence, davanti alla camera misera di Sonja si era assaliti immediatamente da un odore, la cui dominante piombava lo spettatore nell’atmosfera dello spettacolo. Era nostalgico l’odore di The sound of silence, odore del ’68 mitico che si ripesca nei negozi vintage, nei mercatini, nelle spoglie della giovinezza delle mamme. E l’odore di Long life impudico, odore di vecchiaia, di consunzione delle cose, di carni mal lavate, come se di fronte all’estinguersi della vita i corpi volessero impregnare più profondamente le stanze, gli oggetti, i vestiti. La madeleine di Proust ha un odore prima che un sapore.

    Ma, quando niente sussiste d’un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l’immenso edificio del ricordo.

    La scena di Hermanis emana un odore prima di comporre un’immagine, e credo sia questo odore ad aprire, solo per lo spettatore, l’immenso edificio del ricordo. È questo odore che permette al regista e ai suoi attori di esplorare tutto il repertorio delle possibilità della scena a partire dal preliminare tocco che l’odore stabilisce col pubblico. Che poi i vecchi di Long Life siano trentenni che non usano alcun espediente teatrale per invecchiarsi, o che Sonja sia un uomo grasso che assai goffamente si disegna un filo di rossetto e si colora le guance, è solo il segno di come questa scena non intenda raddoppiare la realtà, ma esasperarla e portarla a compimento.

    La scena di Hermanis stavolta non odora, ma doveva odorare di fieno. Le signorine di Wilko è infatti ambientato nella tenuta di campagna delle sei sorelle del titolo, e la grande sala da pranzo che occupa la scena si affaccia sul fondo verso un fienile. E sarà certamente un caso – la circostanza plausibile che il fieno può provocare reazioni d’allergia, il pericolo della sua alta infiammabilità e così via – ma un caso non privo di interesse quello per cui l’irruzione del reale sia tanto mal tollerata da parte di un certo teatro. E allora Hermanis alza la posta e ingigantisce, estenua questa finzione. Tutto solo rappresentato in questa scena: minestre finte, sigarette immaginarie, tutto mimato, tutto solo raccontato.

    Allora la nostalgia non si impiglia più a un odore ma diventa la materia stessa di costruzione dello spettacolo. Le signorine di Wilko sono la nostaglia di un altro tempo che è quello della giovinezza continuamente evocata dai protagonisti, sono la nostalgia di una lettura giovanile di Hermanis che conta questo breve romanzo di Jaroslaw Iwaskiewicz tra i testi meglio capaci di evocare una scena, sono la nostalgia, per lo spettatore, di un’atmosfera che passa per l’odore.

    Capita però che nel centro di questo grande ambiente domestico, nell’evocazione di un passato che raddoppia ogni personaggio e aggiunge un supplemento di nostalgia a ogni gesto, si pianti un fantasma. Una delle sei sorelle è morta pateticamente d’amore quindici anni prima, all’epoca in cui il protagonista maschile aveva visitato per l’ultima volta Wilko. Hermanis mette questo fantasma accanto ai sopravvissuti e fa della sorella morta la figura più viva, quella che, nel tempo del ricordo e dentro un altro teatro, avrebbe certamente profumato di fieno.

     

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